Un soffio leggero. Cocci, foglie, semi, polveri e fiori. Affetti. Un “rito andino” per ricordare e favorire il viaggio nel mondo dei morti, l’ultima e la più ardua avventura dell’anima di Giovanni Feo, scomparso a Pitigliano, nemmeno un mese fa, etruscologo di valore, scopritore del tempio astronomico di Poggio Rota, che ha lasciato con le sue scoperte, un patrimonio sapienziale di cui il centro sono le connessioni magiche e sacre tra cielo e terra, tra il mondo umano e il grande mistero che lo circonda. Feo ha inseguito, nella vita, la voglia di costruire una rete di luoghi mistici, dove si scoprono continuamente simboli e segni sacri, che mettono in comunicazione fra loro cielo e terra, natura, uomo e divinità. E il rito andino che gli amici gli hanno riservato ha sigillato questa sua appassionata ricerca di studioso, sempre sospeso nel sottile e arduo confine fra esplorato e inesplorato. La sua vita e i suoi studi sono stati segnati dall’incontro, avvenuto nel 1997, con Don Juan Nuñez del Prado, docente di antropologia e in particolare studioso delle tradizioni iniziatiche degli Incas. Da lui Feo era stato iniziato al quarto livello della tradizione andina e aveva scoperto somiglianze inoppugnabili con quella etrusca. Un viaggio esemplare, il suo, di cui piccole tracce materiali sono le schegge di cocci e pietre che raccoglieva per studiare questo o quell’argomento, frammenti microscopici di quel mondo soprattutto etrusco che ha appassionatamente amato e del quale esili tracce restano in piccole scatole custodite con cura nella sua casa. A distanza di neppure un mese dalla sua scomparsa, il fratello di Giovanni ha voluto accogliere gli amici della Maremma, dell’Amiata e di altre regioni dove l’etruscologo era conosciuto e apprezzato, nella casa di famiglia di Acquasparta dove Feo aveva raccolto alcuni oggetti, sassi, vetri e pietre e dove gli amici e i familiari hanno voluto ricordarlo e favorire il viaggio della sua anima con un rito tipico delle Ande, terra che lui conosceva bene e da cui era partita la sua splendida ricerca archeologica e filosofica. Un rito antichissimo, a cui hanno partecipato i presenti, iniziando il cerimoniale col raccogliere una pietra per fra quelle appartenute a Feo. Ogni pietra è stata poi appoggiata su un tappeto, all’aperto, e qui ciascuna pietra ha preso forza e energia da tutte le altre, e così è avvenuto anche per tutti i partecipanti. Una sorta di cerchio magico in cui l’energia che coinvolge tutti, è la somma delle energie individuali di cose e persone presenti. Il cerchio acquista forza per la sua coralità e per la compattezza di intenti di chi partecipa. A ciascuno, poi, il celebrante ha chiesto di cogliere tre foglie di alloro nel giardino di Feo. E ognuno, tenendole fra le dita vi ha soffiato sopra, quasi quel suono fosse il fruscio dell’anima che comincia il viaggio e che deve continuare col soffio amicale di chi resta. Le foglie poi sono state consegnate al celebrante che le ha disposte su un foglio di carta, a formare una sorta di corolla. Dentro sono stati adagiati fiori e cuori e all’esterno semi e polveri che sono appartenuti a Feo. Alla fine, la corolla colorata e contenente oggetti degli amici e oggetti di Giovanni, è stata chiusa nella carta legata con un nastro e con quella l’officiante ha benedetto i presenti, favorendo così l’incontro fra la vita e la morte. Poi alla fine si è dato fuoco al fiore di foglie: estrema purificazione a conclusione di un rito che si propone come momento di congiunzione fra mondo dei vivi e mondo dei morti e dove nella vivacità dei colori, nella scelta dei materiali, nel cerimoniale semplice e svolto all’aperto, c’è l’augurio di buon viaggio all’anima che si è liberata del corpo e che adesso è spinta dal ricordo degli amici cari e scaldata e purificata dal fuoco.