Il Kottabos per il diritto ad un po’ d’amore
Il gioco è solo un divertimento? Se è vero che serve a farci trascorrere delle ore senza annoiarci è anche risaputo che non è solo un modo per ammazzare il tempo ma una delle attività in cui l’individuo, bambino o adulto, ha la possibilità di misurarsi con sé stesso, di dimostrare le sue capacità relazionali, cioè di saper vivere insieme agli altri e con essi interagire all’interno della società. Ma non è questa la sede per scomodare pedagogisti e sociologi per disquisire sulla natura e il valore del gioco, vogliamo qui, invece, fare un cenno sui “passatempi” di popoli antichi e, in particolare, degli Etruschi.
I giochi sono molti, vari, e alcuni, secondo la tradizione, sarebbero stati addirittura inventati da loro. Se ne parla già a cominciare dalla ipotesi della loro origine che, secondo Erodoto (V secolo a.C.), gli Etruschi che provenivano dall’Oriente, precisamente dalla Lidia nell’Asia Minore. Lo storiografo racconta, come è noto, che in quella regione, regnante il re Atys figlio di Manes, si era verificata una terribile carestia e i cittadini, per combattere la fame, sembra abbiano ideato numerosi giochi per cercare di distogliere il loro pensiero dal desiderio di mangiare, giocando dalla mattina alla sera: un giorno mangiavano quel poco che riuscivano a procurarsi e il giorno seguente osservavano il più assoluto digiuno. Questo periodo nero durò circa diciotto anni e mise a dura prova la sopravvivenza di questa popolazione metà della quale, ad un certo punto, decise di lasciare la propria terra per cercarne un’altra più fertile e più ospitale. Guidata da Tirreno, figlio del re, questa parte di popolo s’imbarcò verso una destinazione ignota e, secondo Erodoto, raggiunse il suolo Italico, dopo aver toccato altri punti del Mediterraneo, approdando sulle coste dell’odierna Toscana dove si stabilì in un’area geografica compresa tra due fiumi: il Tevere e l’Arno. Sappiamo anche che questa non è la sola ipotesi sull’origine degli Etruschi ma se ne conoscono altre tra cui quella di Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.) che li vuole un popolo autoctono, nato cioè nelle regioni che abitavano, ma qualunque sia la loro provenienza a noi interessa affermare, senza ombra di dubbio, che questo popolo fu il più evoluto della nostra penisola in un lungo periodo di tempo che va dall’VIII al II secolo a.C. e, soprattutto, mettere in evidenza, a proposito di passatempi, che gli Etruschi si presentano a noi, tra l’altro, anche come grandi amanti del gioco.
Tra i tanti da loro praticati ne ricordiamo uno in particolare: il Kottabos pervenuto fino a noi attraverso rappresentazioni pittoriche.
Il Còttabo, in italiano, che significa bicchiere o coppa vuota, era un gioco conviviale consistente nel lancio del contenuto (vino) di una tazza in un bersaglio, usato nel mondo greco e in quello etrusco. Sembra che abbia avuto origine presso i Greci di Sicilia e che da qui sia passato poi nella madre patria e nel mondo etrusco: un contenitore veniva posto al centro di una stanza circolare appositamente costruita, formato da un piattino della grandezza della nostra sottotazza da caffè poggiante su un’asta di bronzo provvista di un piede e di un altro piatto più grande, a mezza altezza, che doveva raccogliere sia le gocce del vino che fuoriuscivano dal piattino, sia il piattino stesso che, quale bersaglio, cadeva appena colpito. I giocatori, durante il simposio, sdraiati sul kline, poggianti sul fianco sinistro e disposti intorno all’asticella con il piatto posta al centro dell’ambiente, reggevano la coppa (kilix) mediante l’indice della mano destra inserito in un’ansa, contenente vino o vino e acqua e, con il rapido movimento del polso, lanciavano il contenuto verso il bersaglio. Era principalmente un gioco di abilità che richiedeva una notevole preparazione e una grande pratica da parte dei “lanciatori” che, con molta destrezza, dovevano imparare a sistemare le dita nella posizione ideale nell’ansa della tazza, a muovere il polso in maniera appropriata e ad esercitare l’occhio nella mira. La coppa, al momento del lancio, doveva contenere una limitata quantità di liquido, delle gocce, ciò che rimaneva del contenuto in buona parte bevuto. Capitava così, molto spesso, che i giocatori arrivassero alla fine del gioco completamente ubriachi. Ma non era soltanto un gioco di abilità: ai lanci, spesso, veniva applicata una intenzione, una dimostrazione di amore verso una persona che si realizzava nel momento in cui il bersaglio veniva centrato. Il vincitore poteva così ottenere un premio per la vittoria che consisteva, soprattutto, nel conquistare ulteriormente la stima della persona amata, presente durante il gioco, (una etera o un ragazzino che non aspettava altro che di essere scelto). Era praticato sia dagli uomini ma anche molte donne si sono dimostrate giocatrici abili e accanite per conquistare il diritto di una notte da passare con l’uomo oggetto del loro desiderio. I greci chiamavano questo gioco Kottabos; il premio al vincitore cottabeia; le coppe cottabides; il movimento del polso veniva detto ankilé e il vino lanciato latage. Questo gioco fu praticato fino al III secolo a.C., poi cadde in disuso e forse non fu mai usato dai Romani. L’arte lo rappresenta con una certa frequenza (Due coniugi che giocano a còttabo, Tarquinia, Museo Nazionale, Sarcofago; Fanciulla che gioca al còttabo, coppa a figure rosse proveniente da Chiusi, Firenze, Museo Archeologico; Scena di banchetto, pittura proveniente dalla Tomba del Tuffatore, 480 a.C., Paestum, Museo Archeologico). Ma anche l’oggetto reale, il còttabo, è ben conosciuto per alcuni esemplari custoditi nei musei (Kòttabos bronzeo, III secolo a.C., Perugia, Museo Archeologico; Còttabo, da Vetulonia, Firenze, Museo Archeologico).
Una interessante variante del gioco è forse quella rappresentata in una scena pittorica della Tomba Cardarelli di Tarquinia, del VI secolo a.C., dove la figura di un giocatore, con i fianchi avvolti da un perizoma, invece di essere sdraiata come di solito, è rappresentata in piedi ma con la kilyx sempre retta dalla mano destra e con il pollice inserito nell’ansa nell’atto di lanciare i resti del vino verso il bersaglio.
È evidente, da quanto abbiamo detto, per concludere, che le attività ricreative e agonistiche fanno degli Etruschi un popolo di “simpatici giocherelloni” ma l’introduzione di pratiche dure, crudeli e tragiche, ci mostrano un aspetto di una cultura non priva di elementi tendenti a certe forme di violenza che caratterizzano i comportamenti di popolazioni appartenenti anche ad altre civiltà antiche delle quali la letteratura ci fornisce ampie e approfondite descrizioni.
Giombattista Corallo
Giocatore di Kottabos
Particolare di una decorazione su auna kylix attica a figure rosse (500 a.C. ca.)
Giocatori di Kottabos in un simposio
Affresco della tomba del Tuffatore a Pestum (475 a.C. ca.)
Figura femminile sdraiata che gioca al còttabo
Particolare di una decorazione vascolare
Còttabo bronzeo