Voglio raccontare una storia di un uomo qualunque. Un uomo che si travestiva e che ha trascorso la sua intera esistenza indossando le più svariate divise. No, non parlo di Lui, il Ministro, ma di un artista del travestimento d’altri tempi e d’altri scopi: Alvaro Antonelli da Castel del Piano, figlio di calzolaio. Lo chiamavamo, negli anni Settanta del Novecento, “Alvaro 13” per la sua stranezza. Andava solo a piedi, percorrendo le strade della Cassia o dell’assolata Maremma o della Tuscia; se gli offrivi un passaggio, lo rifiutava sempre. Interpretava tanti personaggi, vivendoli e appropriandosene. Aveva uniformi di ogni tipo. Amava soprattutto quelle militari ma non disdegnava le vesti religiose. E al posto delle felpe girava con stravaganti berretti, originali bastoni e strabilianti medaglioni. Soprattutto amava la divisa da bersagliere. Partecipava, spesso, alle processioni dei paesi amiatini vestendo cappe azzurre o rosse o nere delle compagnie laicali.
Quando bazzicava le feste dell’Unità non trascurava di mettersi un bel fazzoletto rosso al collo. Se andava a ballare dirigeva l’orchestra, se c’era traffico, si metteva a dirigerlo. Aveva tutte le divise militari (da tenente a generale) ma, ascoltando amichevoli consigli, si era curato di toglier le stellette e i gradi, specie dopo che perché una volta era stato fermato a Firenze. Aveva una fantasia galoppante: al palio di Siena si vestiva da fantino e, durante la crisi del petrolio, esibiva un lungo abito di sceicco. Solo a chi riteneva degno di attenzione, consegnava il suo biglietto da visita, degno di un racconto fantastico alla Gianni Rodari: “Cavaliere della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, Arciduca dell’Ilva, baronetto di Braccagni, Alfiere della Maremma Toscana, Principe delle costiere, Croce d’Oro di San Maurizio e S, Lazzaro, Camicia rossa di Calamartina, Conte di Calaviolina, Duca di Punta Ala, marchese di Montegiovi Commendatore e rifondatore di Teora, Lucumone dell’Etruria Maremmana”.
Chissà perché questo personaggio sia riemerso dai meandri della memoria: perché è tornato, proprio ora, a farci compagnia e a diventare oggetto di divertiti ricordi sia sulla rete sia nelle conversazioni? Ci siamo divertiti a ricordare quella stramberia che sapeva strappare sorrisi e il travestimento non assumeva i toni cupi di questi nostri difficili giorni. Non miravano quei costumi a riflettere classi sociali, né professioni, né etnie. Era solo stravaganza. Si può dire la stessa cosa di quei politici (non pochi, a dire il vero, e non tutti di destra) che hanno indossato divise militari per mostrarsi, magari, degni servitori dell’italica patria o, molto più semplicemente, per rimirarsi allo specchio e sentirsi dei ganzi? La stessa cosa non si può certo affermare per quel noto Ministro che indossa le più svariate divise militari alternandole, di apparizione pubblica in apparizione pubblica, a felpe delle più svariate forme. Perché quel ministro non solo non ci diverte, anzi ci preoccupa?
Alcuni osservatori l’hanno descritto come un “politico-camaleonte”, capace cioè di cambiar colore (divisa) in relazione alle condizioni esterne, legandole strettamente agli eventi e, in particolare, a fatti di cronaca nera. Allora il politico indossa i panni del poliziotto o del militare, del pompiere o della guardia costiera (limito il già lungo elenco) per mostrarsi vicino a chi custodisce l’ordine e, quindi, vicino al popolo impaurito. Popolo che è spaventato dalla spropositata attenzione che i media dedicano alle disgrazie dell’umano genere. L’edicola del dolore. E’ lunga la storia di uomini potenti che hanno fatto ricorso a questa tecnica, mostrandosi in divisa o per cambiar pelle o per mostrare la loro potenza. Andando indietro, molto indietro, si sa che l’imperatore Caligola era chiamato così (Caligula) perché indossava i sandali militari, le caligae, tipiche dei soldati gregarii. Era, infatti, cresciuto negli accampamenti. Tacito dice che indossava le caligae per conciliarsi in questo modo il favore del popolo. Un segno – come la divisa – può trarre in inganno e può far credere che chi la indossa rappresenta o addirittura diventa, sol per questo, l’Autorità. L’apparenza diventa così appartenenza e preoccupa un po’ sapere, come sapeva Thomas Hobbes, che “ è l’autorità, non la verità, che fa la legge”.
Gli abiti, il più delle volte, rivelano il lavoro, la professione o l’importanza sociale di chi li indossa. Il politico che indossa una divisa in realtà si traveste. Può far indignare. O suscitare ironia, come si fa al passaggio di un qualsiasi trasformista della politica, un “Fregoli” dell’epoca dei talk-show. Tenendo, in entrambi i casi, presente che una divisa può assurgere a simbolo e farsi, in tal caso, portatrice di significati che trascendono il cosiddetto senso proprio, inserendosi all’interno di sistema di significazione immaginaria. Il simbolo diventa, così, parte essenziale di un’azione propagandistica, affiancando o superando quelli che erano i più tradizionali simboli di partito. E’ passato quel tempo nel quale i manuali e di comunicazione scrivevano che la propaganda era prerogativa dei regimi “malvagi “e “totalitari”. Il termine s’è evoluto fino a significare “suggestione “ o “influenza” sulle masse, attraverso la manipolazione di simboli e della psicologia dell’individuo. La propaganda comporta l’abile uso d’immagini, slogan e simboli che sfruttano i nostri pregiudizi e le nostre emozioni; è la comunicazione di un punto di vista, con l’obiettivo di indurre il destinatario del messaggio ad accettare “volontariamente “questa posizione come se fosse la propria. Così ce la spiegano due studiosi statunitensi, come Pratkanis e Arosnson.
La “ dichiarazia”, specie con l’avvento dei social-net, tende a narcotizzare sempre più i cittadini elettori: ognuno dica la sua che, sommata alle altre finisce nel pentolone del niente (i diritti vanno a Giorgio Bocca). All’abuso delle parole e delle boutade s’è ora aggiunto il moltiplicarsi delle rappresentazioni simboliche, dei travestimenti quasi carnascialeschi. Scrivono le enciclopedie che l’uomo fin alle origini dell’umanità si veste per due ragioni essenziali: il pudore, cioè la vergogna di mostrarsi nudi, e il bisogno di protezione. Ecco la soluzione all’enigma del Ministro che ama travestirsi: si vergogna a mostrarsi nudo. Cioè per quel che è realmente. Travestendosi secondo le circostanze e la bisogna copre il suo corpo, cioè la sua politica, il suo vero pensiero. Per questo motivo avanzo sommessamente, al popolo democratico, una proposta: ogni qual volta il Ministro, si ripresenterà con una nuova divisa, sia accolto con una grande e gigantesca risata. Così diminuirà l’enfasi della sua propaganda. Forse, la smetterà. O forse cambierà di nuovo pelle, ricorrendo, magari, al tatuaggio.
Maurizio Boldrini