Un sabato sera qualsiasi, quattro amiche sedute allo stesso tavolo, le elezioni alle porte e il bisogno umano di confrontarsi. Si parla di amore, di delusioni e figuracce e poi, per un motivo un po’ storico – siamo donne del nostro Tempo – e un po’ logico, si finisce a parlare di violenza. Violenza sulle donne. Chi ne parla, come ne parla, cosa abbiamo capito, quali sono le domande che abbiamo ancora. Ognuno parla di sè, di quello che pensa, di quello che sa, per esperienza indiretta: “Ho letto sul giornale.. ”, “Ho letto un libro che .. ” “Ho lavorato in un centro d’accoglienza dedicato alle donne vittime di violenza e .. ”. Gli animi si scaldano, il locale che ci accoglie lentamente si dissolve, siamo solo noi. Basta poco e le esperienze raccontate passano dalle esperienze indirette a quelle dirette. Tre su quattro di noi sedute allo stesso tavolo, hanno raccontato di aver subito atti violenti da parte di un uomo o di essere state in situazioni di pericolo. In due casi su tre si parla di uomini con cui le giovani donne avevano una relazione sentimentale, nell’altro caso, che è il mio, si parla di una molestia sessuale, subita da coetanei durante l’adolescenza. Tre su quattro. È una percentuale spaventosa e non può essere un caso.
C’è un particolare che è rimasto fisso nella mia mente e che non vuole andar via. In molti casi di violenza di genere, e in questo caso si parla di violenza da parte del partner, quando le donne raccontano – se riescono a sopravvivere e raccontare – salta agli occhi un particolare: la protettività esasperata del compagno violento. “Era molto premuroso, addirittura quando si camminava stava attento che fossi dalla parte del muro e non dalla parte della strada”, come i bambini ho pensato io. Persone da proteggere come se non fossimo alla pari del compagno a cui camminiamo accanto. “È buio, devo guidare io?” questa è una frase che mi sono sentita dire anni fa, da un amico che certamente non aveva intenzione di offendermi ma che mi ha messo nella condizione di spiegare che tra i suoi occhi e i miei non c’era e non c’è nessuna differenza, che tra la mia capacità di guidare e la sua nemmeno e che l’abilità alla guida non è attribuibile a una questione di genere.
Siamo trattate diversamente, che la differenza sia un’attenzione particolare o una pretesa di possessione, la realtà è sempre la stessa: siamo considerate un po’ meno: un po’ meno forti, un po’ meno abili, un po’ meno indipendenti, un po’ meno decisive, un po’ meno intelligenti, un po’ meno. Con un po’ meno diritti. Con un po’ meno valore.
Voglio riportare parte di un articolo che analizza una parola importante che è FEMMINICIDIO e lo fa dal punto di vista sociale e linguistico. Perché la cultura, e con lei il linguaggio, devono e possono essere gli strumenti di lotta, una lotta che non vuole un gruppo, un genere, vincitore sull’altro, ma la realizzazione di uno mondo alla pari, in cui le persone tutte camminino insieme, senza schiacciare, senza primeggiare.
“Alcuni vedono nell’introduzione di #FEMMINICIDIO esclusivamente la sottolineatura (forzata) dell’appartenenza della vittima al sesso femminile […] se ci riferiamo a una situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, si può parlare di omicidio […] ma di fronte a una notizia come questa:
«India, violentata e uccisa a sei anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell’Uttar Pradesh: la piccola è stata strangolata e gettata in una discarica» (la Repubblica 19.04.2013)
quale parola si dovrebbe usare? È un omicidio? È un infanticidio? O è qualcosa di più e di diverso, qualcosa che si colloca all’interno di una visione culturale che vede il femminile (non si può certo parlare di donne in questo caso) disprezzato e disprezzabile? L’uccisione è solo (!) un “passaggio” di una sequenza che prevede prima il sequestro, la violenza, lo stupro e dopo l’abbandono del cadavere tra l’immondizia, il tutto da parte di un uomo su una bambina. Si potrebbe forse rispondere che si tratta della somma di una serie di crimini, tutti previsti e denominati; ma alla base di questa orribile combinazione c’è la concezione condivisa della femmina come un nulla sociale. Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti “individuali”, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano almeno in parte”
“«Se l’italiano ha già la parola omicidio, che indica l’assassinio dell’uomo e della donna, perché creare una parola nuova? Non è inutile?». La risposta, come spesso càpita, ce la danno i vocabolari. La voce «femmina» viene spiegata cosi: ‘essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo’. Badate all’aggettivo «spregiativo», la soluzione è lì. Il «femminicidio» indica l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata, se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca.
Io non so se questo atteggiamento sia generato da alcune abitudini della società in cui viviamo: una società che, insieme, esibisce sfacciatamente il corpo femminile visto come una merce e preferisce ascoltare chi urla e offende invece di riflettere sulla ragionevolezza delle argomentazioni. Chi mi conosce sa che non sono un parruccone pudibondo; mi ripugnano l’arbitrio, la mancanza di rispetto, l’offesa. Torniamo alla lingua. Se una società genera forme mostruose di sopraffazione e di violenza, bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. E quindi è giusto usare «femminicidio», per denunziare la brutalità dell’atto e per indicare che si è contro la violenza e la sopraffazione. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola «femminicidio»; il generico «omicidio» risulterebbe troppo blando.”
Questo è il link in cui potrete leggere l’articolo completo:
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/femminicidio-perch-parola