Constatato che le ricerche condotte da alcuni studiosi per individuare il luogo ove si trovava questo cenobio.
(dal greco koinos = comune e bios = vita) fatto costruire agli inizi del 1100 dagli Aldobrandeschi, titolari della Contea di Santa Fiora, donato all’abbazia cirtencense di Monte Celso (Siena) unitamente al vasto territorio di pertinenza e affidato alla gestione della sezione femminile dell’ordine di S. Benedetto, si sono concluse con la tesi della sua localizzazione nella stessa sede del Convento Francescano (tuttora esistente) presumibilmente perché entrambi consacrati alla SS. Trinità, lo scrivente, da molti anni convinto che fossero stati edificati in luoghi diversi, dall’estate, 2012 si è impegnato in una ricerca fondata su elementi più concreti la cui analisi ha trovato ospitalità sui mensili “Le Antiche Dogane”, il “Nuovo Corriere dell’ Amiata” ed il periodico locale “E’ permesso?”.
Pur essendo totalmente convinto che il risultato della propria ricerca sia conforme alla realtà in quanto fondato sulla viabilità dell’epoca (nella parte significativa ancora esistente), sulla ricognizione dei confini indispensabile per localizzare qualsiasi immobile e su altri elementi di notevole rilievo, dopo avere esteso le proprie indagini agli archivi storici di istituzioni civili e religiose (con esclusione Archivio Diocesano di Pitigliano e di quello di Stato di Siena, già esplorati dagli altri ricercatori) nel tentativo di ottenere altre utili notizie, ritiene opportuno riassumere i vari aspetti del problema al fine di consentire a chi, leggendoli, potrà meglio conoscere la storia della Selva (la frazione più distante dal capoluogo del Comune di S. Fiora) iniziata dal Monastero.
Un’attenta lettura consentirà a ciascuno di formarsi o perfezionare le conoscenze in merito al primo insediamento umano avvenuto nel luogo, all’epoca definito “la selva del Monte Calvo” (selva, sinonimo di foresta dalla quale deriva il toponimo del centro abitato successivamente sviluppatosi in piccole borgate distanti l’una dall’altra) mediante il confronto con le diverse opinioni espresse dai ricercatori.
Prima di proseguire nella descrizione dei vari pareri in merito appare opportuno rispondere a una domanda di base che istintivamente si pone il lettore: com’è possibile che un centro abitato di qualsiasi forma e dimensione (nel caso specifico un importante monastero) possa letteralmente scomparire dalla geografia, dai documenti ufficiali delle varie istituzioni civili e religiose e perfino dalla memoria orale delle popolazioni della zona? La risposta è, purtroppo, affermativa: sì, è possibile quando siano scomparsi dalla vista i ruderi e, nel caso di totale distruzione, anche le macerie dei fabbricati, perché nelle generazioni successive la memoria di quanto non esiste più, gradualmente si perde nelle notte nei tempi.
Così è certamente avvenuto anche altrove, ma, per il territorio nella Provincia di Grosseto, non soltanto per il monastero dedicato alla SS. Trinità e a S. Benedetto, anche per la città di Vetulonia incendiata e completamente distrutta per ordine del console romano Mario dopo la sua vittoria suIl’avversario Silla dalla cui parte si era schierata la signoria ivi dominante. Quando anche le sue macerie scomparvero dalla vista perche parzialmente riutilizzate per la costruzione di abitazioni e annessi agricoli isolate e dei luoghi abitati della zona, oppure per murature di sostegno dei terreni circostanti o nascoste progressivamente dalla vegetazione spontanea, nel tempo fu modificato persino il toponimo della località che, prendendo spunto da un rudere a forma di piccola torre, venne denominata “‘Colonna di Buriano” in quanto vicina a quel centro abitato.
La sua riscoperta, avvenuta molti secoli dopo, alla fine del 1800, si deve all’intuito e alla successiva tenacia del medico aretino Isidoro Falchi il quale, venuto in possesso di due antiche monete con il conio di Vetulonia regalategli da un amico, lo pregò di accompagnarlo nel luogo dove le aveva trovate ove, dopo un attento esame del terreno, si convinse che la presenza di frammenti di mattoni e altro materiale laterizio da copertura nascondesse l’esistenza di un antico centro abitato.
Nel tempo successivo, dopo ripetuti sopraluoghi, decise di fare sondaggi di scavo con operai assunti a sue spese i quali misero in luce murature di vario genere ed anche qualche pavimento, una scoperta che confermò significativamente i suoi sospetti stimolando il suo crescente desiderio di individuare quale fosse stato l’antico centro abitato di quel luogo, la cui ipotesi largamente prevalente apparve essere quella di Vetulonia in relazione alle due monete ivi trovate dall’amico.
Poiché i documenti storici esistenti recavano, per questa città, la sola indicazione che la collocava “vicino al mare”, gli archeologi e gli studiosi dell’ epoca avevano formulato varie ipotesi, la prevalente delle quali era orientata su Massa Marittima, mentre altre si indirizzavano più a Sud includendovi Marsiliana e anche località della provincia di Viterbo. Il conflitto di opinioni che sorse contro la tesi di Isidoro Falchi fu inevitabile e assunse toni molto “vivaci” perché nessuno degli “esperti” intendeva rinunciare al proprio parere contrario formalizzato in precedenza. Fu soltanto grazie alla tenacia di questo “estraneo” per professione e provenienza (Arezzo) che, al termine di una lunga contesa, prevalse la sua opinione suffragata da prove che venne accolta da un membro del Governo allora in carica il quale, con apposito decreto, stabilì che Vetulonia si trovava in quel luogo.
Una situazione analoga, seppure di minore rilievo in quanto era di minore estensione il complesso edilizio esistente, si è verificata per il monastero femminile dedicato. alla SS. Trinità e S. Benedetto, completamente scomparso da secoli senza lasciare traccia neppure nei documenti storici dai quali risulta soltanto che venne edificato sulle pendici del Monte Calvo.
Quando, dopo aver preso visione dei risultati delle ricerche effettuate da altri e conclusesi con la tesi della sovrapposizione del convento francescano al suddetto monastero, lo scrivente ha deciso di impegnarsi nella soluzione del problema senza lasciarsi influenzare dalla comune consacrazione alla Trinità in quanto, trattandosi di topografia, materia prioritaria del corso di studi per geometri (misuratori della terra), doveva attenersi scrupolosamente ai criteri stabiliti per l’individuazione di ogni immobile; su questi si è basato come più” avanti descritto. Ciò, oltre che per dovere professionale, anche nella consapevolezza che, in caso di errore, non avrebbe potuto beneficiare della tolleranza normalmente concessa
a chi ha svolto o svolge professioni di altra tipo.
Preso atto che la donazione della vasta estensione del terreno destinato al costruendo monastero femminile fatta dagli Aldobrandeschi nell’anno 1103 e confermata nel 1114, dopo il completamento degli edifici, non conteneva l’indicazione dei confini, limitandosi ad un generico riferimento al fiume Armine (rinominato Fiora nel 1500) con la frase “iuxta flumen Armine”, la ricerca dello scrivente si è sviluppata sugli elementi sotto indicati:
1) L’unica strada di accesso alla zona esistente all’epoca della donazione era quella denominata “strada delle vigne” (in parte tuttora esistente sotto il nome di “Via del Fiora’) certamente fatta costruire dagli Aldobrandeschi per raggiungere da S. Fiora i vigneti di uva nera da loro fatti impiantare lungo là valle del fiume e la succèssiva cappella di famiglia, anch’essa consacrata alla Trinità e poi incorporata negli edifici del monastero. E’ perciò ragionevole supporre che essa si trovasse nei pressi di questa strada costeggiante il fiume, non essendo in alcun modo e per nessun motivo ipotizzabile che esistesse un secondo ramo risalente fino al logo dell’attuale convento allora coperto interamente dal bosco.
2) Dal contesto di un secondo atto di donazione fatto a favore del monastero nell’anno 1123 dal titolare del castello di Triana Ugolino Butaciolo per i terreni compresi fra il fiume ed il laghetto adibito a peschiera del pesce necessario all’alimentazione delle suore ivi insediate comprendenti una figlia del donatore di nome Osilia (il laghetto è ubicato immediatamente al di sotto dei terreni di pertinenza del convento francescano), si rilevano tutti i normali confini, uno dei quali costituito dall’allora fosso Ronoaldi (successivamente ridenominato “Serpentaio”) dotato di acqua perenne e. tuttora esistente. Da questa indicazione è possibile dedurre, in modo incontrovertibile, che il fosso, ubicato sul lato Sud della donazione, coincide con il confine Nord della donazione Aldobrandeschi, all’interno della quale doveva necessariamente trovarsi il monastero ultimato nell’anno 1114 e inaugurato con una solenne cerimonia alla presenza del vescovo di Chiusi nella cui Diocesi ricadeva il capoluogo della Contea e di quello di Sovana competente per l’intero Monte Calvo ove si trovava il monastero.
Con altrettanta certezza è perciò possibile affermare che la sua ubicazione non può assolutamente coincidere con il convento francescano fondato dal Conte Guido Sforza alla fine, del 1400, alla distanza di circa un chilometro e a maggiore altitudine.
3) Ciò premesso resta ora da individuare la località nella quale il monastero venne edificato, una ricerca facilitata da alcuni elementi già disponibili, quali la popolazione a valle del fosso Serpentaio, la breve distanza dall’antica strada delle vigne, la disponibilità di acqua sorgiva indispensabile per qualunque insediamento umano, un’area possibilmente pianeggiante per evitare onerose opere murarie di sostegno agli edifici, facilitare la vita all’aperto, dei residenti e consentire la coltivazione degli ortaggi indispensabili per tutti, ma sopratutto per le comunità di molte persone.
Dai sopraluoghi effettuati dallo scrivente è emerso che tutti questi presupposti sono presenti nel pianoro denominato “Terra Santa” ove attualmente esistono due fabbricati di proprietà delle sorelle Anna e Fernanda Bianchi e, a breve distanza, l’agriturismo omonimo di proprietà del sig. Giovanni Calvelli, in prossimità di un’abbondante sorgente di acqua potabile ora nota come “fonte del Cicaloni” derivante dal cognome del proprietario dei terreni adiacenti.
A ulteriore conferma della constatazione che esattamente in questo luogo si trovava il monastero assume notevole rilevanza lo straordinario e significativo toponimo “Terra Santa”, certamente derivato dalla scomparsa di un luogo sacro che, nel caso specifico, poteva essere costituito soltanto dalla chiesa e dal monastero consacrati alla SS. Trinità.
4) Infine una conferma di minor rilievo che lo scrivente ritiene di portare a conoscenza dei lettori è costituita dalla risposta del suddetto sig. Giovanni Calvelli alla domanda se durante le lavorazioni del terreno con il trattore di cui dispone aveva notato qualche indizio della esistenza di antichi fabbricati: “Si, molte volte ho visto affiorare frammenti di mattoni ed altro materiale laterizio”.
Essendo impensabile che questi frammenti possano cadere dal cielo come la pioggia, costituiscono anch’essi prova inoppugnabile dell’esistenza in loco di antichi fabbricati scomparsi.
Avendo egli aggiunto di avere notato la presenza di sabbia nel sottosuolo durante lo scavo delle fondazioni per la costruzione dell’ampliamento alla casa paterna necessario per la sua trasformazione in agriturismo, una presenza che in un terreno collinare come quello d Terra Santa è spiegabile soltanto con il disfacimento delle copiose malte impiegate nelle ingenti opere murarie di un rilevante complesso edilizio, anche la sabbia costituisce prova indiretta del monastero in questione.
La sola ipotesi che lo scrivente ritiene di poter formulare ragionevolmente nell’impossibilità di disporre di prove concrete concerne la misteriosa scomparsa delle macerie del notevole complesso edilizio del monastero nel quale esistevano almeno 22 celle per le altrettante suore che risulta avere ospitato, i locali e gli spazi comuni, la Chiesa e le abitazioni delle famiglie addette ai vari servizi.
Non potendo supporre che siano state utilizzate per la costruzione delle rare, piccole abitazioni rurali sorte nei dintorni nel periodo successivo all’immancabile crollo delle strutture certamente avvenuto dopo l’esodo delle suore e delle famiglie addette ai servizi, in quanto generalmente quell’epoca e nei secoli successivi costituite da un vano a piano terra per l’alloggio degli animali domestici e da un altro al piano superiore per l’abitazione della famiglia proprietaria, l’unica attendibile ipotesi residuale è che il grande ammasso di macerie costituito da pietre e materiale laterizio del monastero sia stato recuperato per la costruzione del Convento Francescano avvenuta alla fine del 1400.
Depone a favore di questa ipotesi anche la considerazione che l’unica alternativa al recupero delle macerie era all’epoca costituita dal prelievo del pietrame dal fiume Fiora, notevolmente più distante dal Convento e più oneroso per il trasporto con carri trainati da buoi su strada in salita. D’altra parte lo sgombero delle macerie era conveniente anche per il Monastero di Montecelso di Siena, proprietario del suolo e dei terreni agricoli ‘adiacenti nei quali esistevano vari poderi in quanto consentiva l’utilizzazione dell’area per le normali coltivazioni.
E’ pertanto possibile affermare che l’esistente Convento Francescano, pur trovandosi in una località diversa da quella ove prima sorgeva il Monastero femminile di S. Benedetto, ha in comune con questo l’identica consacrazione alla SS. Trinità ed almeno una parte rilevante del materiale da costruzione impiegato.
Termina a questo punto la ricerca storica del sottoscritto il quale, pur essendo convinto di averla condotta con la maggiore obiettività possibile, ritiene tuttavia doveroso offrire ai lettori una dettagliata descrizione delle diverse opinioni di altri ricercatori rilevante nel corso d elle su e indagini, allo scopo di consentire a tutte le persone interessate alla conoscenza della ”verità storica” intesa come fotografia delle opere e dei fatti accaduti nel tempo anteriore alla propria esistenza, di potersi formare una propria opinione in proposito.
Ovviamente, a somiglianza di quanto avviene normalmente in un corretto dialogo tra gli interlocutori, ogni argomento evidenziato verrà’seguito da un breve commento dello scrivente.
1) Opinione dei ricercatori Niccolai, Sensi e Nucciotti
Dal contesto della “Piccola Guida di Santa Fiora” redatta e pubblicata dagli autori su Internet si rileva:
a) “La vedova del conte Ranieri Aldobrandeschi ed i loro figli fondarono il convento della SS. Trinità sul Monte Calvo”.
– Commento : in realtà non si trattava del convento ma del monastero femminile consacrato alla Trinità ed a S. Benedetto il 7/6/1114.
b) Nella parte dedicata al convento francescano si afferma che “nel XV° secolo, per opera del conte Guido Sforza, il convento fu ristrutturato ed affidato ai francescani”.
– Commento: Il termine “ristrutturato” non è pertinente perché, come si deduce chiaramente dalla lapide commemorativa del conte Guido collocata nella navata sinistra della chiesa del convento che reca “templum hoc coenobiunque instituendo ditando quo condi jussit” (istituendo ed arricchendo questo tempio e il cenobio che ordinò venissero fondati. L’equivoco deriva dal fatto che gli autori scambiano la fondazione (sinonimo di creazione) con la modifica di quanto preesisteva, ritenendo erroneamente che in quello, stesso luogo esistesse in precedenza il monastero femminile.
c) L’errore di sovrapposizione dei due cenobi è più avanti ripetuto ove
gli autori affermano che il conte Guido “promosse una ristrutturazione
I‘ampliamento del complesso che ebbe luogo tra il 1488 ed il 1489”.
– Commento: Anche per i minori lavori richiesti da un’eventuale ristrutturazione ed ampliamento, obiettivamente un solo anno di tempo appare insufficienti in relazione ai 10 anni occorsi per la costruzione del monastero femminile.
d) Più avanti gli autori affermano che “venne realizzata una nuova chiesa che inglobò la precedente”.
– Commento: L’inglobamento avvenne nella costruzione del monastero di Benedetto mediante la trasformazione della cappella privata degli Aldobrandeschi (certamente di modeste dimensioni) nella più grande chiesa occorrente per la comunità delle suore, per le famiglie degli addetti ai vari servizi del monastero e per quelle dei coloni dei poderi costruiti nel vasto territorio di pertinenza.
2) Il parere del prof. Ilvo Santoni
a) Nelle pagine del periodico locale “E’ permesso?” del Gennaio-Giugno 2013 dedicate a “La lettura del territorio” il prof. Santoni (in replica al testo dello scrivente sul monastero pubblicato nei mensili “Le Antiche Dogane”, il “Nuovo Corriere dell’Amiata” e sullo stesso periodico locale) afferma che “non c’è documento che parli del Monastero di S. Benedetto”. Più avanti sostiene che le carte di Montecelso parlano “della terra posta sotto il Monte Calvo con la chiesa di S.Trinità sopra edificata (1103), e della domus (casa abbaziale) sancte Trinitatis et sancti Benedicti”.
– Commento: Il riferimento a S. Benedetto risulta comunque anche se abbinato alla Trinità. Non appare inoltre esaustiva la sua traduzione di “domus” in “casa abbaziale” potendo significare, nel caso specifico, anche “monastero”. Più avanti, descrivendo la contrada, afferma che era detta di S. Benenetto perché nel XII e XIII secolo proprietà della domus della Trinità e di S. Benedetto.
b) A pagina 9 afferma che “la vicinanza delle sorgenti era condizionante per la costruzione dei monasteri”.
– Commento: Sembra ignorare che, immediatamente sopra il pianoro di Terra Santa esisteva ed esiste tuttora una sorgente di notevole por-tata e quindi perfettamente in grado di soddisfare le esigenze idriche del monastero, attualmente nota sotto il nome di “fonte del Cicaloni”. Inoltre, sempre a monte del pianoro, esistono altri affioramenti d’acqua usati anche in epoca recente per annaffiare gli orti delle famiglie ivi insediate.
c) Nella colonna destra della stessa pagina sostiene che presumibilmente sarei stato colto da depressione immaginare, il monastero presso la via del Fiora (ex strada delle vigne) cambiando versione per ipotizzarlo nella contrada di Terra Santa.
– Commento: All’inizio della mia ricerca, prima di recarmi della zona per prendere visione, dello stato dei luoghi, avevo chiesto il parere sulla presumibile ubicazione “del monastero scomparso ad un particolare personaggio della Selva, il compianto Gino Mazzoni che ben conosceva tutto il territorio. Rispose che un giorno, nell’approssimarsi al Fiora che intendeva attraversare, si era imbattuto in un grande ammasso di macerie ricoperte da rovi, arbusti e piante, facendogli immaginare che si trovasse in quel posto. In occasione del primo sopraluogo effettuato nella zona mi resi conto che l’area, a ridosso del fiume, pur avendo ospitato qualche fabbricato, tra i quali alcuni molini, non poteva essere idonea per un monastero e decisamente la esclusi per rivolgere la mia attenzione ai terreni sovrastanti la strada ove si trova anche Terra Santa. Non si trattava pertanto di un cambiamento di versione, ma soltanto della prima fase di una ricerca che partiva dal nulla.
d) Più avanti, sulla stessa pagina, contesta la mia ipotesi secondo la quale nell’anno 1103, quando avvenne la donazione degli Aldobrandeschi per il territorio di pertinenza del costruendo monastero, l’intero Monte Calvo fosse coperto dalla vegetazione arborea, ad eccezione di una fascia limitata presso il fiume ove i donatori avevano fatto impiantare alcuni vigneti. Egli afferma invece che da un atto di vendita del 1114 a favore della Trinità risulta, che l’agricoltura era presente anche più in alto.
– Commento: E’ certamente possibile che dopo 30 anni di insediamento delle suore Benedettine del Monastero, abbia iniziato a svilupparsi qualche forma di agricoltura nelle zone adiacenti mediante il taglio ed il “dicioccamento” delle piante del bosco come è poi sistematicamente avvenuto per gran parte del monte nei secoli successivi ad opera delle famiglie che venivano gradualmente ad insediarvisi, anche partendo da terre lontane (gli antenati dello scrivente provengono dal territorio ora ricadente nel Comune di Impruneta, presso Firenze). E’ tuttavia incontrovertibile che, all’epoca della donazione del 1103 la situazione fosse quella descritta dallo scrivente, non esistendo altri insediamenti umani sul Monte Calvo.
e) A fine pagina 9 rileva una mia contraddizione nel riferimento alla strada della piscina (peschiera) dopo aver affermato che l’unica esistente era quella delle Vigne.
– Commento: Non sembrano esistere contraddizioni merito per il semplice motivo che nel mio elaborato quella strada è definita “sentiero” per consentire l’accesso al laghetto a chi proveniva dal sottostante monastero.
f) All’inizio di pagina 10 si è evidentemente ricordato dell’esistenza della fonte del Cicaloni indicata tra parentesi a fianco di Terra Santa.
Ogni commento è superfluo perché la sorgente fa decadere la più importante sua pregiudiziale per costruire il monastero in quel luogo.
g) Poco al di sotto della fotografia dell’attuale fontanile di S. Benedetto tratta dal suo recente libro sulla Selva dal titolo “Le fonti ed il Sacro” (certamente pregevole per la dettagliata ricerca delle sorgenti esistenti sul Monte Calvo odierno) l’estensore afferma che i laghetti destinati all’allevamento del pesce a servizio dei monasteri e dei conventi sono abitualmente collocati a valle allo scopo di non inquinare l’acqua prelevata per uso alimentare sul lato a monte.
– Commento: Questa necessità non sussisteva nel caso del monastero di S. Benedetto in quanto l’acqua per uso alimentare (prelevata dall’odierna fonte del Cicaloni) era distinta e notevolmente distante da quella della peschiera.
h) Al punto 4 riportato nella colonna sinistra di pagina 10 si contesta la mia presunta affermazione circa la coincidenza tra la via della Piscina e la strada del Crocione (mai da me nominata) affermando che quest’ultima esisteva prima del 1123 in quanto costruita per servire il monastero e discendere verso la parte alta delle vigne.
– Commento: Il mio parere sulla strada della Piscina è riportato al punto e); mentre nella mia ricerca sul monastero ho sostenuto che la seconda strada costruita sul Monte Calvo, più in alto di quella “delle Vigne”, dalla quale venne derivata in prossimità dell’attuale diga sul Fiora, poi transitando dalla fontanella di sfiato dell’acquedotto, venne certamente realizzata a servizio del convento francescano costruito alla fine del 1400 per volontà del conte. Guido Sforza. Agli inizi del 1100 non poteva sussistere alcuna necessità per costruire una seconda strada diretta in quel luogo ancora totamente coperto dal bosco.
i) Al punto 5 di pagina 10 viene contestata la mia affermazione circa la necessità per i due cenobi, qualora fossero stati costruiti nello stesso luogo, di avere in dotazione gli stessi beni; perché aventi regole diverse.
– Commento: La presunta differenza tra la signoria monastica e l’ordine mendicante non appare convincente perché anche il convento francescano ebbe in dotazione dagli Sforza l’area ove venne costruito, le adiacenti pertinenze adibite ad orto e giardino, terreni coltivabili ed il sovrastante, grande bosco, oltre ad un castagneto.
l) Al punto 8 non viene esclusa la possibilità che le terre poste a monte della donazione Butaciolo fossero state acquisite dal monastero.
– Commento: Trattasi di una semplice ipotesi non suffragata da alcun documento e quindi non attendibile.
m) Al punto 9 viene contestato il parere dello scrivente circa la necessità, nel caso che i due cenobi si trovassero nello stesso luogo, di un contratto di retrocessione della proprietà da parte del Monastero di Montecelso, donatario di tutti i terreni di pertinenza di quello di S. Benedetto, affermando che gli Aldobrandeschi, al momento della loro donazione, si erano riservati “tutti i diritti”.
– Commento: I diritti riservati ai donatori riguardavano il dominio (sinonimo di sovranità territoriale), i diritti dinastici e quelli militatari. La mia tesi è pertanto pienamente valida perché la riserva non includeva (no poteva includere perché altrimenti, si sarebbe trattato di una semplice donazione d’uso che non compare in nessun documento) i
diritti di proprietà, che vennero integralmente trasferiti al monastero donatario.
Esaurita la parte essenziale delle contestazioni del prof. Santoni, debbo necessariamente estenderla a quelle sollevate da altri interlocutori intervenuti nella problematica del monastero scomparso dopo la pubblicazione della mia ricerca concernete le origini del centro abitato di Selva, un argomento di sicuro interesse non soltanto per i pochi superstiti ti ancora qui residenti (mi dicono meno di 150 rispetto agli oltre mille del periodo bellico ed ai 976 che lo scrivente accertò nell’estate 1950 su richiesta del Ministero Agricoltura e Foreste del quale gestiva, quale dipendente, un ufficio parastatale a S. Fiora), ma
anche di chi, come me, ha qui avuto le proprie radici.
3) Osservazioni della redazione del periodico locale “E’ permesso?”
a) Nell’edizione del Luglio-Novembre 2013 gli addetti alla redazione
sostengono che il toponimo “Terra Santa” è recentissimo perché appare nei documenti comunali soltanto nel 1883 e mai prima lo usarono i Frati (della Parrocchia) per battesimi ed atti di morte, né vi è stata tradizione orale dal trecento (1300) ai giorni nostri.
– Commento: Se in quella località appartenente per lunghissimo tempo (lo scrivente non stato in grado di accertare l’epoca della dismissione, anche approssimativa, dei beni del Monastero scomparso, neppure presso la sede di Siena) al Monastero di Montecelso, è perfettamente possibile che non abbiano potuto insediarvisi nuclei familiari fino al penultimo secolo. Di conseguenza è inutile ricercarne traccia nei documenti comunali e parrocchiali attinenti famiglie del “centro abitato di Selva, né si può, escludere che il toponimo risalga all’epoca della scomparsa del monastero per consentire ai residenti delle prime borgate di individuarlo con una denominazione rispettosa della sacralità del luogo ove, oltre al monastero, esisteva anche la chiesa consacrata alla SS. Trinità.
b) Gli estensori sostengono inoltre che, a loro parere, è impossibile che un santuario intitolato alla SS. Trinità possa risorgere a poca distanza con lo stesso titolo.
– Commento: L’affermazione, oltre a non essere confermata da specifiche disposizioni della Chiesa Cattolica, appare priva di fondamento in considerazione del fatto che il giorno dell’inaugurazione del monastero, avvenuta in forma solenne con la partecipazione dei vescovi di Chiusi e di Sovana il 7/6/1114, fu consacrata alla Trinità praticamente l’intera Contea di S. Fiora come risulta dalla “Offersio 19″ di un testo”, esistente presso l’Archivio di Stato di Siena che vi include “tutte le terre, beni pertinenti- e chiese dipendenti posti nei vocaboli S. Fiora, Piancastagnaio, Cellena, Baggiano, Grossetella, Acquamari con le vigne di vite nera e Boceno ed altri luoghi e vocaboli ‘ovunque appartenenti all’ Abbazia della ‘Santa Trinità”
Sembra opportuno fare nuovamente osservare che proprio da questa presunta unicità della consacrazione alla Trinità è sicuramente scaturita l’ipotesi della sovrapposizione del monastero femminile, e del convento francescano che vede ora schierati da un lato tutti coloro che l’hanno condivisa e dall’altro il solo scrivente che si è prefisso di ricercare la sede del monastero scomparso partendo dall’individuazione delle antiche strade che non scompaiono mai completamente (a differenza dei fabbricati) 8.nche quanòo parzialmente inglobate nella moderna viabilità e, sopratutto, dalla ricognizione dei confini di proprietà che ne costituiscono sempre l’indiscutibile base fondamentale.
4) Considerazioni di P. Domenico Crasi nel suo libro pubblicato nel 1972
Nel suo libro di cui sopra lo scrittore padre Domenico Cresi cita lo studioso Repetti il quale afferma che, a parere dei frati francescani, i monasteri femminili venivano sempre costruiti in centri abitati.
Il motivo, anche se sottinteso, era certamente quello di garantire alle suore ivi residenti una maggiore sicurezza.
– Commento: Nel caso del monastero di S. Benedetto, costruito sulle pendici del bosco di Monte Calvo, questa cautela era resa superflua dai due contratti di donazione dei terreni di pertinenza nei, quali sia gli Aldobrandeschi che il Butaciolo (signore del castello di Triana) assumevano l’impegno di provvedere direttamente alla tutela ed alla difesa delle suore residenti nel monastero (alle quali, peraltro, si affiancavano le famiglie degli addetti ai servizi ed i massari dei poderi).
Nel caso di inadempienza il contrattò prevedeva una rilevante penalità
a carico dei donatori, ascendente a 100 libbre di argento della migliore qualità per gli Aldobrandeschi ed al doppio del valore dei terreni donati, per il Butaciolo.
Avendo esaurito gli argomenti finora espressi sulla localizzazione del
monastero Benedettino e del convento Francescano, spetta ora ai lettori farsi un’idea personale circa l’attendibilità delle contrapposte tesi.
Chi lo desidera potrà avvalorare la propria scelta mediante una visita
ai due luoghi interessati, tenendo presente che il convento, abbandonato dai frati francescani da oltre 20 anni per la cronica mancanza di vocazioni religiose, è comunque sempre ben visibile dall’esterno in qualunque periodo dell’anno, mentre l’annessa, grande e bella Chiesa è visitabile all’interno nel periodo estivo Luglio-Settembre, nei pomeriggi del sabato e della domenica, per la disponibilità offerta gratuitamente da alcuni volontari residenti o nativi, della frazione Selva che si alternano sul luogo dalle ore 16,30 alle 19,30. Nel caso di gite turistiche organizzate è possibile accedervi previo appuntamento con il presidente dell’Associazione Culturale Luciano Tortelli (tel.0564 953283).
Constatato il notevole afflusso di persone,anche dai paesi vicini, in occasione di manifestazioni nell’ area del convento, l’ Associazione culturale ha in programma altre, interessanti iniziative.
Bruno Gonnelli