Una delle prime domande che mi vengono poste dall’ostetrica é: “Sai se è già successo nella tua famiglia?” Rispondo, anche con una certa fermezza: “No, non è mai successo”. Siamo in una saletta del consultorio, dopo aver visto nell’ecografia che il cuore della mia bambina, di 28 settimane, ha smesso di battere. Scoprirò poi tante cose: tra le prime, che proprio questo “28 settimane” è importante, poiché segna sulla carta la differenza assurda tra un aborto e un parto, tra un feto e un bambino. La seconda è che nella mia famiglia é successo eccome. Terzo, che non è un caso raro al mondo.
Ho appena finito di parlare con le mie nonne della morte di bambini in gravidanza. Alla nonna paterna è successo, durante gli anni ‘50, di perdere una bambina al quarto mese, la quale non é stata né fotografata né sepolta ma “portata via” dal personale dell’ospedale di Viterbo: non é andata avanti nel parlare, perché troppo provata, a distanza di oltre sessanta anni, anche dalla perdita di un altro bambino già grande. La nonna materna, invece, mi ha raccontato molto: già la sua mamma, prima di altre tre gravidanze andate a buon fine, partorì una neonata morta. Non sa dove sia sepolta ma ricorda di aver visto la foto ricordo, risalente ad oltre ottanta anni fa, di una bimba fasciata di bianco e con le mani giunte. Poi mi parla di un altro episodio: da giovanissima, siamo sempre negli anni ‘50, si trovò a seppellire il figlioletto della sorella nel giardino del cimitero del paese. La levatrice disse loro che potevano buttare il feto, di pochi mesi, nello scarico. Ma i parenti, pietosi, lo deposero in una scatolina di Magnesia, che portava impresso il nome di un Santo: minuscola quindi, ma pienamente degna della funzione.
Oggi io la mia bimba l’ho potuta stringere in braccio, fotografare, segnare in anagrafe e seppellire in cimitero. Ho avuto al mio fianco ostetriche, medici ed infermieri insuperabili in fatto di professionalità e di umanità. Scrivo queste righe per sfogarmi dell’accaduto ma soprattutto per ringraziare tutti dell’aiuto che ci hanno fornito in un momento così terribile. Sono grata alle ostetriche dell’Ospedale di Castel del Piano, le quali mi hanno accompagnata per sette mesi in un percorso sereno di gravidanza fisiologica. E poi ricordo tutta la Patologia Ostetrica dell’Ospedale Misericordia di Grosseto, che ogni giorno si trova ad affrontare emergenze di ogni sorta e ci ha accolti come in un nido, soddisfacendo ogni nostra richiesta con sensibilità, spiegandoci cosa avremmo potuto fare, scegliere e decidere nelle fasi successive. Ci hanno consigliato la lettura del libro Piccoli Principi, della psicoterapeuta Claudia Ravaldi, e del sito ciaolapo.it come momento di condivisione del nostro dolore; ci siamo affacciati ad una realtà che raccoglie migliaia di esperienze e consigli su questa tragedia così personale.
Si, a volte penso alle cause, alla fatalità, a quel cordone attorcigliato intorno alla caviglia, al se poteva bastare la prescrizione di una aspirina per cambiare tutto, alle infezioni batteriche, al se fossi stata ferma 24 ore al giorno a letto, al se fossi stata migliore, al se fossi… Ma, in definitiva, non mi importa granché del perché sia successo.
Niente ci restituisce la nostra bambina. Quello che mi spaventa e seriamente sconforta è la frequenza con cui succede, il poco tempo di cui se ne parla e la disinformazione che ancor oggi persiste nelle fasi successive al fatto. Dalla fonte Redazione Scientifica di responsabilecivile.it
“Nello specifico in Italia una gravidanza su sei si interrompe con la morte del bambino e nove bambini al giorno muoiono a termine, poco prima del parto o dopo la nascita, con notevoli ripercussioni sulla salute psicofisica delle madri e della coppia; nello specifico, in Italia, la natimortalità colpisce circa 180.000 famiglie ogni anno. Come sottolineano gli specialisti e gli esperti del fenomeno, intorno alla morte perinatale sussiste nel nostro Paese una forma deleteria di tabù che ne limita la comprensione, l’approfondimento e la sensibilizzazione; al suddetto limite di matrice culturale va ad aggiungersi anche un ventaglio di criticità che, seppur meramente amministrative, acuiscono il carattere drammatico della gestione dell’evento di “morte in utero”, in capo ai genitori che nella stragrande maggioranza dei casi si ritrovano privi di riferimenti ed informazioni chiare e puntuali su questo versante, si ritiene opportuno segnalare che in molti casi i bambini nati morti, identificati come “prodotto del concepimento”, segnatamente per le età gestazionali precoci vengono trattati alla stregua di rifiuti ospedalieri, e pertanto “smaltiti” come tali senza che al genitore, confuso e addolorato, venga offerta una spiegazione o vengano illustrate le norme ed i regolamenti vigenti disciplinanti la fattispecie…”
Insomma, esattamente quello che subì mia nonna per la sua bambina sessant’anni fa.