Sono nato e ho passato l’infanzia nella Fattoria degli Acquisti, in piena e profonda Maremma, proprietà dei Guicciardini Corsi Salviati.
Ogni famiglia che abitava agli Acquisti aveva un proprio orto. Questi erano nella strada che passava dietro l’officina, subito dopo i semensai del tabacco. C’era una stradina a sinistra e sulla destra iniziava tutta una serie di orti, dove le famiglie coltivavano i loro ortaggi. Sul bordo destro della stradina scorreva la canaletta dell’irrigazione, con l’acqua proveniente dalla Bruna.
Il nostro orto era l’ultimo, proprio in fondo alla stradina. Io ci andavo sempre con mio nonno Cecco e mia nonna Stella. Erano infatti loro che lo curavano e raccoglievano la verdura. Mio babbo era impegnato come capo officina, la mia mamma c’aveva tre figlioli e un marito a cui badare più otto persone da mettere a tavola, per cui non potevano certo venire a lavorare anche loro.
Chi voleva ci teneva anche qualche animale. Noi per esempio ci si teneva i polli e i coniglioli che la mia nonna ogni tanto ammazzava. Io l’aiutavo a macellarli tenendoli per le zampe mentre lei li spellava e poi li sbudellava. La pelle la stendeva con delle canne tagliate a misura e poi le metteva all’aria, per poterle poi vendere. In mancanza delle canne la pelle poteva anche essere sbattuta violentemente contro il muro della casa e lì rimaneva appiccicata ad asciugarsi. A dire la verità più che venderle mia nonna le barattava con qualcosa che mancava per casa: eravamo ancora per buona parte all’epoca del baratto e gli ambulanti che venivano regolarmente in fattoria sapevano perfettamente cosa portare e cosa prendere.
Per tornare agli orti, il terreno era bello, scuro, grasso e profumato. Quando a fine inverno si doveva vangare da capo a fondo, arrivava agli Acquisti un personaggio leggendario. Un personaggio, unico nel suo genere, che non abitava agli Acquisti, ma veniva regolarmente all’epoca delle vangature degli orti. Era il Pinsuti.
Era un vecchio robusto, non tanto alto, anzi tarchiato, biondiccio e quasi pelato sotto il suo “piruliro”, come noi si chiamava il berretto basco. Era pure sdentato: aveva un solo dente di sopra e uno di sotto, ma non coincidevano. Era buono come il pane. Veniva solo per vangare gli orti nostri. Quelli di fattoria li vangava lo Zulicche (Alfredo Paolini).
Si portava dietro una sua vanga personale, come fa un professionista del biliardo con la sua stecca. Tutto il suo guardaroba stava in una mezza balla, che attaccava al manico della vanga, portata in spalla quando, sempre e solo a piedi, viaggiava per le strade di Maremma.
Mio nonno Cecco gli diceva cosa voleva seminare nell’orto, il prezzemolo, l’insalata, i pomodori, i fagiolini, eccetera e lui cominciava a vangare preparando gli squadri del terreno. Era uno spettacolo vederlo lavorare così preciso e bello. I suoi gesti erano cadenzati, armoniosi, da professionista e da artista. Quando finiva il lavoro vedevi che da un anonimo pezzo di terra ricoperto di erbacce veniva fuori una precisa, profumata e colorata aiuola da orto: un capolavoro!
Mentre vangava con le maniche di camicia rimboccate che mettevano in mostra degli avambracci gonfi di bei muscoli, si piegava via via per levare la gramigna dalle zolle o per recuperare qualche bel lombrico lungo e grassottello che mi lasciava e io mettevo in un barattolo di latta, perché ci avrei potuto fare la mazzacchera pe’ l’anguille.
Ma la sosta era anche per mettere un po’ di benzina nel motore. La “benzina” era contenuta in una fiasca protetta da vimini intrecciati, e normalmente era vino rosso. Era un artista anche nel bere: portava la bocca della fiasca alla sua bocca, ma non appoggiava ambedue i labbri come penso i più facciano, l’appoggiava solo sul labbro inferiore e poi il vino gorgogliando con piccoli glo glo glo scendeva garbatamente in bocca. Una pulita con il dorso della mano, il tappo rimesso con un piccolo colpetto e poi riprendeva il lavoro. Non era il solo ad usare questa benzina: anche altri vangatori e braccianti lo facevano e hanno continuato a farlo con regolarità per molto tempo.
La notte il Pinsuti dormiva nel nostro forno per il pane, sotto le scale di casa. Mia nonna Stella, sempre sospettosa, mi diceva che era un tipo un po’ strano perché mangiava le tartarughe e i ricci. Però lo invitava a mangiare a tavola con noi e lui mangiava soprattutto pane inzuppato a causa dei suoi unici due denti. Aveva gli occhietti socchiusi e ridenti, erano occhi dolcissimi e buoni.
A me voleva tanto bene e quando mi accarezzava la testa non faceva come tutti gli altri che mi struffavano i capelli o mi ci davano un mezzo nocchino.
A bocca chiusa, quando gli occhietti erano socchiusi ed il mezzo sorriso dominava la faccia, assomigliava in modo impressionante a Papa Wojtyla. Appena apriva bocca e spuntavano i denti diveniva un incrocio tra Braccio di Ferro e Teomondo Scrofalo: ricordate Asta Tosta (Oggetti Tosti Per Tutti I Gosti… pardon, I Gusti) nel Drive In di Ezio Greggio?
Non so perché, ma quando sentii per la prima volta la canzone di De André, Il pescatore, mi venne subito in mente il Pinsuti: “E aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso …”.
Mitico Pinsuti, quanto ti ho voluto bene. Quanto mi manchi!