Chi nel primo autunno del 1933 avesse letto i quotidiani della Toscana ed i principali nazionali, sarebbe rimasto colpito da un complesso fatto di cronaca che si stava svolgendo sulle pendici del Monte Amiata, nel comune di Cinigiano.
Secondo le prime notizie che circolano tra ottobre e novembre circa duecento persone avrebbero subito un’intossicazione acuta forse da zinco o piombo, con tre morti, di cui due bambine. Nel prosieguo delle indagini si arriva alla conclusione che gli intossicati, da piombo, sono sessanta, trenta i ricoverati e un morto, una bambina di 3 anni, deceduta il 3 novembre 1933 all’Ospedale di Siena: Pieranna Tassi (indicata anche come Pierina). Le altre due morti presunte, madre e figlia, erano avvenute per cause differenti.
Il fatto, oltre che per la cronaca nera e l’autorità giudiziaria (i colpevoli sono presto individuati), riveste un significativo valore per la medicina.
“Per il modo di prodursi e per la vasta estensione che esso ha raggiunto l’avvelenamento ci è parso di particolare interesse in quanto non è frequente in Clinica l’osservazione di avvelenamenti subacuti da piombo, riguardando la quasi generalità dei casi conosciuti: intossicazioni croniche (professionali), ovvero avvelenamenti isolati. Nel caso speciale invece si è trattato di assunzione per via orale (pane e farine) di quantità piuttosto elevata di piombo, tanto che in alcuni nuclei familiari l’avvelenamento si è svolto in maniera decisamente acuta”.
Così si apre (p. 516) un accurato articolo scientifico dei medici della Clinica medica generale dell’Università di Siena, Lorenzo Crosetti (docente poi all’Università di Torino) e Aldo Forconi (in seguito primario dell’Ospedale di Prato) sul numero 9 (A. XLI) del 1 settembre de “Il Policlinico”, rivista fondata a Roma nel 1893 e ancora pubblicata: Il quadro clinico dell’intossicazione subacuta da piombo (pp. 516-565).
I fatti
Così leggiamo dal “Corriere della Sera” del 5 novembre 1933: “Fin da settembre scorso nel paese di Cinigiano (Grosseto) si notarono in vari abitanti casi di avvelenamento di cui in un primo tempo non fu possibile accertare le cause. Aumentando il numero dei colpiti, fu chiamato sul posto il direttore della Clinica medica generale di Siena, prof. Gamna, il quale riuscì a stabilire che l’avvelenamento ora cagionato da una sostanza venefica contenuta nelle farine provenienti dall’unico molino del paese.” (Tre casi di morte dovuti a farina intossicata, p. 8).
Gamna era un medico di fama, torinese, dal 1929 al 1937 docente di Patologia medica e Clinica medica all’Università di Siena. Il suo nome oggi è associato a noduli che si formano in vari organi, detti “Noduli di Gamna”.
Alcuni avvelenati sono trasferiti a Siena e a Grosseto, altri curati sul posto dal medico condotto Giuseppe Motti – che aveva anche rivestito incarichi in comune e conosceva bene il territorio – assistito dal dottor Gamna. Il mulino è subito chiuso e si iniziano le indagini: “Sembra che l’elemento base della sostanza venefica sia l’ossido di zinco, che veniva aggiunto in forte dose alla farina, forse per aumentarne il peso” scrive ancora il “Corriere”.
Tutto è ancora poco chiaro, così come sono poco chiare le origini dell’avvelenamento: si parla appunto di zinco, di piombo, di una sostanza forse utilizzata per lucidare le scarpe ed aggiunta alla farina per aumentare il peso e frodare gli ignari acquirenti (Il fermo di due mugnai accusati di avere intossicato la farina, “Corriere della Sera”, 9 novembre 1933, p. 6).
L’11 novembre 1933 su “La Stampa” il dottor Angelo Viziano, medico di fama, divulgatore, collaboratore di varie riviste popolari, riflette sui fatti di Cinigiano: “In un primo tempo era stato segnalato che gli avvelenamenti di Cinigiano, in provincia di Grosseto, erano dovuti all’ingestione di ossido di zinco mescolato alla farina. La cosa destò subito un interesse dal punto di vista clinico, in quanto la tossicità dello zinco è ancora assai discussa ed i casi di supposta intossicazione da zinco risultano all’atto pratico, per lo più, provocati da tracce di piombo o di arsenico, che lo zinco contiene come impurità.” (I casi di Cinigiano. L’avvelenamento da piombo, p. 4). Viziano nel prosieguo dell’articolo riflette sulla tossicità dello zinco, se a Cinigiano questa fosse davvero la fonte: poco ancora si sapeva della tossicità di questo metallo, i dati sperimentali sono incerti e quanto accaduto sull’Amiata, se fosse confermato, sarebbe una prova clinica rilevante, perché il terribile fatto di cronaca. “purtroppo a spese di vittime innocenti” avrebbe portato nuovi dati in “questo capitolo di tossicologia, che tiene desta soprattutto l’attenzione dei medici del lavoro per l’impiego vasto che dello zinco si fa nelle industrie.” Oggi sappiamo che lo zinco è essenziale per il metabolismo umano e che non è considerato un elemento tossico, pur se eccessive concentrazioni possono portare a disturbi gravi.
Il dottor Viziano comunque non è convinto che si tratti di avvelenamento da zinco e interpella il professor Gamna: “Per accertare, dal punto di vista medico, i fatti di Cinigiano, ci siamo quindi rivolti al prof. Carlo Gamna, Direttore della Clinica Medica di Siena, ove è stata ricoverata la maggior parte degli intossicati. L’eminente clinico ci ha subito tolto ogni dubbio sull’origine degli avvelenamenti ed ha dichiarato come ormai con certezza si possa parlare di intossicazione da piombo.”
Il nodo però era la provenienza di questo metallo: molte condutture dell’acqua erano di piombo, ma l’intossicazione è troppo forte per avere questa origine. È ragionevole che abbia un’origine alimentare. È sempre Viziano che chiarisce: “La sostanza venefica incriminata era il piombo. Procedutosi subito a speciali ricerche, si poté stabilire, mediante indagini chimiche, effettivamente la presenza di piombo negli escreti dei pazienti. Intorno alla gravità dell’intossicazione, il prof. Gamna ci ha cortesemente aggiunto: ‘I casi erano seri ma non gravi; però altri nuovi più gravi erano segnalati dal medico del paese. Furono allora eseguite ripetute indagini con l’aiuto della Clinica, prof. Crosetti e dall’assistente, dott. Forconi, per studiare bene la forma clinica e la distribuzione dei casi nel territorio colpito e per ricercare insieme al medico del luogo le eventuali origini dell’avvelenamento. Fu così potuto stabilire che l’alimento incriminabile doveva essere la farina e precisamente quella che proveniva da un molino della località. Prelevati saggi di farina e di pane, fu effettivamente in essi constatata la presenza di piombo in quantità notevole e chiarita così la natura e l’origine dell’avvelenamento collettivo, che nel frattempo aveva interessato un discreto numero di persone, e persino intere famiglie’”.
L’avvelenamento non è limitato a Cinigiano: una famiglia di Cana (nel comune di Roccalbegna) che si approvvigionava al mulino incriminato è intossicata e ricoverata all’ospedale di Grosseto: il quadro clinico è oramai chiaro, si tratta di stabilire le reali motivazioni dell’intossicazione, se per dolo o disattenzione. (“La Stampa”, 8 novembre 1933, Molteplici casi di avvelenamento per adulterazione di farine, p. 7).
Viziano precisa la situazione: “Bisogna ora appurare se veramente sia stato immesso di proposito del piombo nelle farine per aumentare il peso, e l’ipotesi di una tale adulterazione è tenuta presente per il contenuto notevole e la larga diffusione assunta dall’avvelenamento, oppure se la presenza del piombo nella farina sia stata causata dall’illecito impiego di tale metallo per colmare le incrinature della superficie macinante della mole.”
Tutto passa all’autorità giudiziaria. Qualche giorno prima “La Stampa” era stata più precisa sulle responsabilità: “La causa dell’avvelenamento non è complicata, come sembrava, in un primo tempo. L’affittuario [del molino] aveva delle macine vecchie e bucherellate e, per accomodarle, adoperava del piombo che poi rivestiva con del mastice resinoso. Durante la lavorazione, il mastice si è staccato e la farina è rimasta così intossicata. Il podestà di Cinigiano intervenne, ordinando la chiusura del molino e diffidando la popolazione dei Comuni a non adoperare la farina avvelenata, coadiuvato nella sua opera dal medico condotto provinciale di Grosseto.” (“La Stampa”, 9 novembre 1933, A proposito degli avvelenamenti per la farina adulterata, p. 9).
Il “Corriere” riprende più volte la notizia e il 9 novembre informa del “fermo” dei mugnai colpevoli: “La responsabilità spetterebbe a mugnai del luogo, i quali avrebbero unito alla farina di grano una fortissima percentuale di una sostanza, dall’aspetto farinaceo, usata comunemente per pulire le scarpe bianche e che dagli esami chimici finora effettuati risulterebbe a base di piombo, e quindi straordinariamente letale. […] I mugnai responsabili sono stati sottoposti a ‘fermo’. È giunto sul posto un ispettore generale della Sanità Pubblica per compiere un nuovo esame delle farine” (Il “fermo” di due mugnai accusati di avere intossicato la farina, “Corriere della Sera, 9 novembre 1933, p. 6). Sempre il “Corriere” il 16 novembre poi dà una notizia “sospetta”, nella linea di incerte informazioni: “Malgrado i provvedimenti presi dalle autorità sono affluite ancora nella clinica di Siena altri colpiti da sintomi di avvelenamento. Sembra che alcuni incauti contadini del luogo, per utilizzare in qualche modo la farina intossicata di cui sono in possesso, se ne siano serviti per nutrire un considerevole numero di suini, che ora si cerca di vendere a tutti i costi” (La farina inquinata dal piombo. La necroscopia delle due vittime, p. 2).
I colpevoli
Dopo circa un anno, a fine novembre 1934, i responsabili, appunto due mugnai della zona, sono a processo a Grosseto. “La Stampa” il 23 novembre ne dà notizia con un breve trafiletto: “Al Tribunale di Grosseto si è iniziato stamane il processo contro due mugnai di Cinigiano accusati di aver nell’esercizio del loro mestiere, per imperizia, causato la morte di una bambina e di aver procurato l’avvelenamento di ben 60 persone. Come fu accertato a suo tempo, le farine che uscivano dal mulino condotto dagli imputati erano avariate, avendo essi adoperato del piombo per riparare le macchine deteriorate. Il piombo, disperdendosi nelle farine ha provocato l’avvelenamento degli infelici clienti del mulino” (Le farine avvelenate. I due mugnai in Tribunale, p. 4).
Il 27 successivo il processo si conclude e così è riportato da “La Stampa” il giorno successivo: “Stasera si è concluso dinanzi al Tribunale di Grosseto il processo a carico dei mugnai, accusati di aver colposamente procurato la morte di una bambina e una lunga malattia di una sessantina di persone che avevano mangiato del pane confezionato con farine di grano macinato nel tragico mulino di Cinigiano. Nella udienza odierna si sono avute le arringhe dei rappresentanti della Parte Civile che hanno concluso chiedendo la condanna degli imputati a lire 10 mila ciascuno, risarcimento dei danni e rifusione delle spese. Il Tribunale ha emesso sentenza per la quale dichiara colpevoli gli imputati e li condanna a 3 anni di reclusione ciascuno, alle spese e ai danni verso la Parte Civile.” (I due mugnai di Cinigiano condannati a tre anni, p. 8).
Le evidenze mediche
Il citato saggio di Crosetti e Forconi è molto dettagliato e riporta numerosi dati clinici dei pazienti di Cinigiano ricoverati a Siena.
Le vicende sono ben studiate, sotto tutti i punti di vista, e danno rilevanti dati, permettendo l’avanzamento delle ricerche e delle terapie nell’avvelenamento da piombo, poco studiato su larga scala: “Gli autori tracciano il quadro clinico dell’intossicazione subacuta da piombo quale hanno potuto osservare e studiare in un vasto avvelenamento collettivo di origine alimentare. I rilievi più significativi che ne emergono sono rappresentati dalla particolare fisionomia clinica che acquista l’avvelenamento nel quale l’ittero, lo speciale colorito, la costanza di granulazioni basofile nelle emazie, la peculiare sintomatologia gastroenterica costituiscono un complesso abbastanza caratteristico e proprio di questa modalità dell’avvelenamento, finora scarsamente conosciuta e poco studiata” (p. 564).
I medici senesi concordano che questo genere di avvelenamento, tramite la farina per una cattiva riparazione delle mole, sia molto raro, pur noto nella letteratura, insieme all’adulterazione con carbonato di piombo: difficile però da identificare nel modo corretto. “Dobbiamo dire che l’identificazione del fattore etiologico, per quanto fin da principio sospettato, non è stata tanto facile. I primi casi, infatti, si sono presentati in Clinica con segni di anemia secondaria quando non esistevano elementi per sospettare che fosse in causa un fattore tossico comune.” (p. 518).
Nei casi che i due medici riportano nell’articolo i sintomi hanno una remota provenienza; infatti, alcuni pazienti lamentano disturbi generalizzati da maggio-luglio 1933.
Caso n. 1, di anni 43, abitante nel concentrico di Cinigiano, nel quale la sintomatologia risalirebbe al maggio (?) consistente in senso di ripienezza epigastrica accompagnata da dolori urenti, disappetenza, astenia, pallore. La sintomatologia si fa più intensa nel settembre con dolori addominali che poi diventano continui.
Alla nostra osservazione il paziente viene più tardi in stato di notevole deperimento, assai pallido, con tenue orletto gengivale. Milza leggermente ingrandita.
[…]
Caso n. 2, di anni 22, contadino, da Poggio Marsili (Cinigiano).
In questo caso i primi disturbi risalgono alla metà del luglio 1933, anche qui con lievi dolori epigastrici insorgenti dopo pasti copiosi, talora accompagnati da nausea e da vomito alimentare. In quel tempo ebbe anche diarrea con numerosissime scariche in poche ore con successiva scomparsa dei dolori. Episodi simili si sono ripetuti nei mesi successivi sempre con gli stessi caratteri: talvolta con vomito. Non ittero, né febbre, tuttavia il paziente pur con questi intervalli poté continuare nella propria attività lavorativa. L’attacco doloroso che lo condusse in Clinica si è manifestato il 30 settembre 1933 con intensa sintomatologia addominale: dolori epigastrici, vomiti che si sono protratti per tutto il giorno successivo. Negli ultimi tempi deperimento (perdita di otto Kg di peso).
I dati positivi dell’esame obiettivo sono costituiti da notevole pallore con appena accennato subittero, orletto gengivale evidente a quasi tutti i denti.
Addome trattabile eccetto che alla regione epigastrica ove la palpazione provoca moderata dolenzia. Fegato appena apprezzabile al disotto dell’arco costale.
[…]
Il paziente dimesso in condizioni migliorate (3 Kg di ripresa del peso in 10 giorni), è tornalo a Poggio Marsili ove ha ripreso, nonostante i nostri consigli, le proprie abitudini dietetiche, ingerendo certamente un’altra volta del tossico, tanto che è stato di nuovo colto da dolori addominali, conati di vomito biliare, sì da essere costretto per la seconda volta al ricovero in Clinica in preda a sintomatologia dolorosa intensa.
[…]
Caso n. 3, di anni 19. Normale benessere fino ai primi di settembre 1933. Da allora astenia; dal 10 settembre dolori epigastrici non intensi con esacerbazione dopo i pasti e senso di ripienezza. Pochi giorni dopo notò ittero alle sclere e alla cute con parallela coluria. Il 30 settembre i dolori si sono fatti assai intensi con vomito più volte ripetuto. Stipsi (4 giorni). Ricoverato il 3 ottobre 1933.
Stato di nutrizione scadente, pallore notevole con ittero. Psiche integra. Sottile orletto gengivale ai premolari inferiori e superiori. Nulla al respiratorio e circolatorio. Addome dolente all’epigastrio specie con la palpazione. Fegato appena ingrandito. Leggero ingrandimento della milza. Non alterazioni della sensibilità e della motilità. Riflessi tendinei torpidi.
[…]
Durante la degenza il paziente ha dimostrato un dato importante, rappresentalo dalla ripetuta insorgenza di disturbi psichici, caratterizzati da negativismo, da idee fisse e caparbietà del carattere. I disturbi si sono andati gradualmente attenuandosi. Anche la sintomatologia addominale che a giorni è stata assai intensa è andata decrescendo.
[…]
Il paziente è stato dimesso il 19 ottobre in condizioni migliorate, ma ancor pallido e astenico.
[…]
Caso n. 4, di anni 42, ha goduto del suo pieno benessere fino ai primi del settembre 1933. Da allora astenia, facile esauribilità fisica, dolori addominali particolarmente all’epigastrio, che han subito forte esacerbazione senza cause apprezzabili. A metà di settembre ittero lieve alle sclere e alla cute. Non disordini dell’alvo; qualche volta vomito. Fin dai primi giorni bruciori alla gola e lingua fortemente arrossata, mentre nella superficie interna della guancia destra comparivano alcune macchie brune in parte presenti al momento del ricovero. Questo è stato determinato dalla persistenza dei dolori, dell’ittero dell’astenia per i quali aveva ricorso al Direttore della Clinica.
Ricoverato il 7 ottobre 1933 in preda a deperimento notevole con colorito fortemente pallido, ma soprattutto itterico con sfumatura tendente al caffè e latte dorato. Sclere intensamente itteriche, le macchie ipercromiche di cui si è già fatto cenno, poste alla faccia interna del labbro inferiore si presentano di colorito scuro della grandezza di un centesimo. Orletto gengivale assai marcato di colore nero-azzurro, che scarsamente si modifica con lavaggio di acqua ossigenata (pp. 518-520).
Alcuni casi, come esempio, che permettono poi ai medici di identificare con esattezza le cause della “epidemia” che si sta sviluppando a Cinigiano, pur se nelle prime fasi tutto appare un rompicapo.
Era però notevolmente ardua l’identificazione del meccanismo comune di intossicazione, a causa delle speciali condizioni di vita di questi contadini. La possibilità di un avvelenamento professionale al quale era ovvio pensare davanti a dei lavoratori come nel caso nostro, essendo la scarsa casistica in quel periodo costituita esclusivamente da coloni adulti, sembrava qui del tutto da escludere: alla nostra inchiesta in proposito i malati negavano di aver maneggiato vernici di piombo, né ci fu possibile nonostante la più accurata indagine anamnestica di poter pensare all’intervento di una qualunque delle numerosissime cause di saturnismo professionale.
Escluso, o per lo meno ritenuto molto improbabile, un avvelenamento professionale, si pensò alla possibilità di un’origine alimentare dell’intossicazione.
L’ipotesi che il veicolo del tossico fosse costituito dall’acqua potabile, si poté escludere in seguito alle informazioni attinte riguardo l’approvvigionamento idrico delle abitazioni dei vari ammalati. Se questa ipotesi poteva essere nel vero per il primo ricoverato, abitante nel concentrico di Cinigiano che è approvvigionalo da un comune acquedotto, ci fu subito possibile metterla da parte, davanti ai casi 2 e 3, abitanti rispettivamente a Poggio Marsili e Poggio Cerri, casolari ubicati a notevole distanza (3-5 Km) da Cinigiano e ognuno munito di propri pozzi e di cisterne.
Analogamente fu possibile escludere l’ipotesi che l’origine dell’intossicazione fosse da riferire ai recipienti di conservazione dell’olio, dell’acqua, come pure alle stoviglie adoperate.
Per queste ragioni le supposizioni che il veicolo del tossico fosse costituito dalle farine sembrava molto fondata. Ma la conferma ci venne da notizie fornite dal medico del luogo, che nella frazione di Cana del Comune di Roccalbegna, ubicata a notevole distanza da Cinigiano, un’intera famiglia si era avvelenata nello stesso periodo di tempo con una sintomatologia analoga a quella dei nostri ammalati ed era stata ricoverata nell’Ospedale di Grosseto.
[…]
Questi casi hanno permesso l’identificazione non solo del veicolo del tossico (farina), ma anche del molino responsabile dell’inquinamento, perché l’unico legame esistente tra questi casolari lontani e Cinigiano è costituito dal fatto che, soltanto nella stagione estiva, a causa dell’inattività del locale molino azionato da forza idraulica, questi coloni si servono del lontano molino di Cinigiano azionalo da energia elettrica (pp. 523-525).
Conclusioni
La “morale” della tragica vicenda, dettata non tanto da premeditazione quanto da ignoranza, è delineata nelle conclusioni dell’articolo di Angelo Viziano: “Non si può in quest’occasione non lodare la pronta azione del Direttore della Clinica medica senese, che, per meglio dirimere ogni dubbio, per precisare la forma d’avvelenamento, per scoprire la fonte dell’intossicazione e prevenire l’ulteriore espandersi del focolaio morbigeno, ha proceduto personalmente e col personale della Clinica a sopraluoghi diretti. Si tratta di una chiara dimostrazione dell’indirizzo sociale che la medicina va sempre più assumendo in Italia e ribadisco la necessità che il medico tenga sempre nel massimo conto i fattori ambientali entro cui si è svolta la vita dell’ammalato in sua cura.”
Simone Fagioli