Quella che segue è la trascrizione integrale di un documento ritrovato durante una mia ricerca documentale alla fine dell’anno trascorso. Si tratta di un piccolo articolo scritto dal poeta Mario Luzi (1914-2005), pubblicato dal Corriere dell’Adda nel luglio 1953, digitalizzato in anni recenti e reso disponibile on line dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (vedi riferimenti a fondo pagina).
Leggere e poi trascrivere, per conservare, il lavoro di Luzi è stato come rivedere, fotogramma dopo fotogramma il film di un mondo conosciuto e amato, rinnovare ricordi ed emozioni giovanili e inevitabilmente fare un confronto sul Monte Amiata e dintorni di oggi. Nella speranza che possa interessare qualcuno del sud della Toscana ho deciso di pubblicare la trascrizione integrale.
Monte Amiata (di Mario Luzi, 1953)
Visto da Siena, il Monte Amiata è una solenne e delicata forma cinerina che affonda nei vuoti e ventosi spazi che circondano la città. Le ragazze nei collegi, gli studenti nelle aule delle scuole, quasi tutte situate sugli estremi speroni dell’abitato si fanno spesso alla finestra, pongono la fronte ai vetri e indugiano a guardarlo. Alcuni sono di là e la sua mole lontana, isolata nel celeste della profonda regione, formicola per loro di vecchie storie paesane; per altri è un mistero.
Non per nulla di mezzo c’è l’immensa e irreale vallata dell’Orcia con le sue crete dissodate, i vasti seminati, le terre a riposo nel movimento continuo delle poggiate che occupano e aprono il cielo: mentre il colore della terra è di un grigio livido bruciato così rarefatto che la luce non assorbita vi si dilata sopra in vibrazioni violacee che si perdono oltre gli ultimi profili delle lontananze e accrescono il senso di vastità e di solitudine. Terra che appare come un fondale della memoria o un luogo del sogno su cui un oscuro senso esaltato percepisce il brivido d’una misteriosa ventilazione.
Ma il Monte Amiata è un regno assai più terrestre: il suo cono altissimo denso di faggi e giù giù di castagni si dilata in pendici dolci e anfrattuose che nel loro movimento danno luogo a conche e valloncelli dove per l’abbondanza dell’acqua si insinuano colture fitte e freschissime o per l’asciuttezza prosperano vigne e uliveti; si espande a mezzogiorno in più aridi contrafforti prospicienti la maremma e in essi domina la grande quercia, fra toppe di più modesti castagneti e ancora l’olivo, la vigna e, nelle pieghe ombrose, l’ortaggio.
Dove la vista è limitata non si può trovare nulla di più ameno, la profonda frescura, nell’intrico verde delle piccole valli dove il paesano cura la pergola, annaffia i sedani e le insalate con l’acqua del fonticello o del rudimentale condotto, mentre più su la grande estate mediterranea picchia pel ciglione della strada maestra tutta intessuta di macchie di ombra e di sole, occupa nettamente i sensi e l’animo, rinnovando l’antichissimo tema della beatitudine e dell’optium rustico. Dove l’orizzonte è più aperto e la vista si perde nelle celesti latitudini del senese, o sull’altro versante nel desolato correre degli speroni a perdita d’occhio verso la maremma, tra i quali serpeggiano dai magri torrenti, l’Albegna e la Fiora, l’imminenza di tanto spazio induce nell’animo qualche malinconia.
Non vi sono che poche case coloniche, raramente la poca terra coltivabile strappata generalmente ai castagni o ai boschi di quercia è ripartita in poderi. Più spesso si tratta di frammenti poiché nei punti più fertili tutti vogliono avere il suo e lavorarlo minutamente con grande amore, col gusto della proprietà e la passione per la terra che è proprio di questa gente che ne scarseggia. Abitano tutti nei paesi che cingono come un anello la montagna tra i seicento e gli ottocento metri o stanno arroccati sulle sue estreme propaggini: alcuni hanno anche un mestiere, fanno il ciabattino, il sarto o il barbiere, ma quando è stagione di lavori scendono anch’essi a cavalcioni al somaro verso il loro minuscolo fondo e rientrano sull’annottare carichi di panieri e di fasci d’erba. Allora il selciato dei vetusti borghi risuona di un continuo zoccolio, mentre ci si scambiano poche rudi parole di saluto, come tra gente della stessa famiglia e sottoposta alla stessa sorte. Solo dopo a veglia nelle grandi cucine affumicate o nella piazza o nell’osteria si accende la conversazione in quella lingua chiara e forte, che tuttavia consente nei suoi modi rituali l’espressione di uno spirito vivace e sapido che è anch’esso rituale, delle tribù più che del singolo. Dai loro discorsi il borgo si leva come un universo nella fitta rete delle sue parentele, nella profondità delle generazioni che si sono succedute nelle sue case grigie nella storia degli averi, nei mutamenti della fortuna delle famiglie, nelle malattie, nelle nascite, nelle morti, nei suoi vegliardi leggendari; e tutto è considerato un rito, un tributo quasi sempre triste dovuto alla vita del tempo. E che cosa non è per esempio l’assistenza agli infermi, la veglia dei morti quando tutti, le comari, gli uomini e perfino i ragazzi sanno trovare le giuste parole del rito che ritualmente consolano con quella intrinseca pietà che non viene dal cuore , ma dall’antica e tribolata religione della specie.
Durante la mattinata o nel meriggio c’è un grande silenzio, rotto solo dal martello del fabbro, dallo stridore della segheria, da un canto di donna; nell’ombra densa che proietta la casa di pietra scurita, senza intonaco o il castagno o il piccolo poggio sovrastante di quella terra rossa fitta di pruni e quercioli, potete vedere la vecchia al fuso e li accanto il somaro legato all’anello o alla stanga mentre la fonte versa acqua perenne; al sole stanno i graticci con i fichi a seccare, i vasi con le conserve, le pannocchie del granturco sulla stuoia o sul panno di tela.
Il ragazzo cresciuto in città s’incanta in questo mondo dove nulla è estraneo, dove tutte le case gli sono ugualmente aperte; e vede che le operazioni dell’uomo hanno un senso, una causa e un termine chiaro e finiti tra pochi atavici oggetti e immagini, tra poche essenziali passioni sempre vive: e non vorrebbe più andarsene: mai la terra gli era sembrata così veramente terra, il vino vino, l’amicizia, la parentela nella solidale modestia di tutti dove perfino la povertà può non avere amarezza.
Il ragazzo del paese sogna invece di evadere nella città come già hanno fatto tanti altri prima di lui, talvolta con un certo profitto, ma in ogni caso non potrà veramente staccarsene, continuerà a far parte del corpo vivente della comunità portandosela nel pensiero, restando nella memoria ininterrotta del borgo che tramanda tutto senza nulla disperdere.
Per ora l’uno e l’altro vivono insieme la loro perfetta terrestrità avventurandosi sugli scoscendimenti, infrascandosi nel sottobosco o penetrando dai minuscoli cancelli di legno nella vigna, nel campicello dove la vasca occhieggia di sotto le frasche e spiccano i frutti per la loro merenda. Poi quando le ombre profonde si sono mosse e fatte turchine rientrano e si soffermano nella piazza, fanno cerchio anche loro intorno ai vecchi solenni seduti sul muricciolo o sui gradini delle scalinate sotto il cielo ancora acceso narrano storie di altre età e distillano l’antica e perenne sapienza della stirpe.Mario Luzi
Il testo che ho trascritto sopra è opera di Mario Luzi (1914-2005) è stato pubblicato nel “Corriere dell’Adda” in data 11/07/1953.
Il ritaglio del giornale che riporta l’articolo di Mari Luzi proviene dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (Collezione – Fondo Falqui) e reso disponibile on line (Biblioteca Digitale – Emeroteca) e ritrovato durante una mia ricerca in questa biblioteca effettuata nel dicembre 2020.
Lido Ballati, Firenze 05/03/2021.