Pioggia di premi per l’arcidossina Giulia Malinverno Riccieri, che da qualche tempo si cimenta con racconti e letteratura, ottenendo prestigiosi riconoscimenti, fra cui spiccano due recenti premiazioni in contemporanea: una a Portovenere con il racconto “Camicie Rosse” (ispirato alle reali vicende dei giovani garibaldini arcidossini; due suoi trisavoli, Geppe Tassi e Candido Gori, presero entrambi parte alla decisiva campagna di Bezzecca al tempo della III guerra d’indipendenza, e l’anno dopo a campagne minori nell’Agro Romano) che è inserito nella raccolta “Monti di ieri, monti di oggi” fresca di riconoscimento al Concorso Letterario a Ostana. L’altra premiazione al Concorso Emozioni di Donna a Gravellona Toce, in Piemonte, con il racconto “io dormivo”. “Scrivere di se stessi è la sfida più difficile. Lo si può fare quando si è sereni e si riesce a guardare al proprio vissuto con un certo distacco. Finché le emozioni sono calde, la scrittura è carica e può mettere ansia o risultare stucchevole: essa diventa un mezzo per scaricare sul lettore il senso di dolore, frustrazione o gioia, ma si tratta di una pretesa spesso egoistica. Ci si può sì sfogare scrivendo all’amica del cuore, che può tutto e sopporta tutto, ma non tutti sono disposti a fare da spugna antistress. Ai corsi di scrittura raccomandano infatti di non scrivere di sé quando il vissuto è ancora in corso, si è freschi di innamoramento o reduci da un lutto. Tuttavia, scrivere fa benissimo e io lo raccomando particolarmente perché può diventare davvero curativo, la miglior terapia per scaricare emozioni e stati d’animo troppo ingombranti. Non importa come si scrive, l’importante è farlo. Nel mio caso, io non potrei far a meno di scrivere. Dei momenti belli fisso le emozioni fugaci, e nei periodi difficili la scrittura mi ha salvata. In particolare quando ho dovuto affrontare la disastrosa esperienza dell’aborto terapeutico, ho trovato sfogo nel mio diario elettronico, al computer. Ricordo che ci stavo anche fino alle cinque di notte, e forse anche di più, e a forza di rivivere, ricordare, scandagliare le emozioni, il tempo è passato, lentamente, ma è passato. Certo, il percorso è stato lungo: credo che dover rinunciare a un figlio molto desiderato sia una delle sofferenze più gravi per una donna. Per molto tempo non sono riuscita a parlarne, ma se oggi ne parlo e ne scrivo serenamente e con trasparenza, è perché infine sono riuscita a controllare una certa parte del mio vissuto. Il dolore non si supera mai ma s’impara a conviverci, riuscendo ad assolversi per infondati sensi di colpa, rimpianti e rimorsi. Più mi confronto con le donne (sono sempre più sono quelle che mi confidano le proprie esperienze intime parlandone anche attraverso i social-network) e più mi rendo conto di quanta forza ci sia in noi, e quanto splendido sia l’universo femminile. Noi donne possiamo davvero sopportare molto: sembriamo fragili ma abbiamo risorse infinite che ci permettono di reinventarci continuamente. Possiamo scalare montagne, e crescere figli da sole. Una cosa ho comunque imparato: si riparte sempre da se stesse, ed è su se stesse che si deve fare anzitutto affidamento. Specialmente quello dell’aborto è il dolore più intimo e personale che ci possa capitare: è veramente difficile condividerlo. Ognuna sceglie il percorso terapeutico più congeniale: io ho scelto, da sempre, la scrittura. All’epoca tenevo un diario elettronico, e mi è servito tantissimo. Il racconto “io dormivo” l’ho scritto sette anni dopo la vicenda cui si riferisce; avendo per regolamento solo 10.000 battute disponibili, mi sono dovuta limitare sugli aspetti più intimi e rimanere, per così dire, in superficie. Mi sono però soffermata sull’attesa del dolore, perché io credevo che quello si sarebbe manifestato all’improvviso come un tuono, e invece “io non sapevo che quello era già lì, nell’attesa: gli altri lo vedevano, io no. Un aborto segna la vita di una donna in modo permanente: sia quello terapeutico sia quello volontario cui le donne ricorrono per svariati motivi, legati all’età o alle condizioni personali. Non sempre si ha la giusta percezione di quanto tale vicenda possa gravare nel vissuto di una donna: a volte il sostegno viene a mancare proprio in famiglia, ma per fortuna questo non è stato il mio caso, anche se comunque ognuno rielabora la vicenda in un modo tutto suo. Nonostante la brevità del racconto, credo che il mio scritto sia stato apprezzato perché rivela la forza che c’è in noi donne, e con questo colgo l’occasione per abbracciare tutte coloro che come me hanno vissuto un simile grande dolore, un’esperienza che – se non affrontata nel giusto modo e con il giusto sostegno – può anche mettere a rischio la solidità di una famiglia e l’integrità di un legame di coppia. Alle donne vorrei dire: parlatene, piangete se volete piangere, liberatevi delle emozioni, partite subito per un viaggio, distraetevi e non datevi colpe, ma soprattutto vivetelo il dolore, perché le emozioni non vissute tornano prima o poi a bussare alla vostra porta. Ciò che per anni mi ha emotivamente bloccata è stata l’incapacità di accettare la causa che mi aveva obbligata all’aborto terapeutico: all’inizio del quarto mese di gravidanza emerse infatti che il feto era affetto da difetto al tubo neurale, DTN, una patologia fetale purtroppo ancora molto incidente nella nostra realtà e spesso incompatibile con la vita. Per molto tempo non ho capito come due persone sane possano incorrere in un DTN. Solo recentemente, e certamente perché il tempo è sempre la miglior medicina, mi sono riconciliata con me stessa, convincendomi che certe cose accadono perché “sono in natura”. Certo è che un’attenta e consapevole prevenzione può ridurre certi rischi. Il racconto vuole essere infatti anche un’occasione per dire alle donne di fare seria prevenzione durante tutta la durata della loro vita fertile perché certi rischi sono riducibili con un’attenta alimentazione o adeguata e consapevole integrazione vitaminica; nel caso del difetto al tubo neurale, DTN, la scienza ha riscontrato l’importanza decisiva dei cosiddetti “folati” nel ridurre il rischio di incidenza fino al 70%. Nel mio caso il livello dei folati era insufficiente, ma con un semplice esame del sangue quel parametro può essere controllato. Inoltre, l’acido folico viene spesso assunto come integratore solo quando la gravidanza si è manifestata: questo può essere inutile perché l’embrione può aver già sofferto per la carenza di acido folico (vitamina B9), di cui necessita nei primissimi giorni (quando una donna è ancora all’oscuro della gravidanza), quando deve formarsi e chiudersi correttamente il tubo neurale da cui hanno origine le primarie strutture di colonna, midollo e cranio. La patologia di DTN emerge infatti per un difetto nella chiusura del tubo neurale, in un suo tratto o alle estremità. E’ incredibile come una vitamina possa rivelarsi essenziale in questa fase della vita embrionale! Alle autorità che si occupano di politiche sanitarie e istruzione vorrei chiedere di intensificare le campagne informative riguardo agli effetti benefici dell’acido folico, iniziando magari a parlarne alle adolescenti sedute sui banchi di scuola. La popolazione femminile in età fertile dovrebbe essere adeguatamente informata e assumere sempre tale integratore, considerando che non tutte le gravidanze sono pianificate: in altri paesi a questo aspetto viene data così tanta importanza, che per legge alcuni cibi vengono “fortificati” in modo che tutta la popolazione sia coperta e che in particolare nelle donne il livello di acido folico sia sempre adeguato, anche per affrontare le gravidanze inattese, per le quali non c’è stata prevenzione e quindi tempestiva integrazione vitaminica. Non dico che in Italia si soffra gravemente per la disinformazione medico-scientifica, ma quella della prevenzione è una cultura che deve ancora affermarsi compiutamente, sia relativamente ai rischi di DTN che riguardo a molte altre patologie, più diffuse e che riguardano l’intera popolazione, non solo quella femminile”.