L’ultima app (che poi è l’abbreviazione di “applicazione”), di cui si parla per i cellulari, si chiama Periscope, che è stata acquista da Twitter per una cifra oscillante da 86 a 120 milioni di dollari a seconda delle fonti. Essa si vende con il seguente claim (che poi vuol dire l’obsoleto “slogan pubblicitario”): “Esplore the world through the eyes of somebody else”, che poi tradotto sta a dire pressappoco: “Esplora il mondo attraverso gli occhi di qualche altro”. Tempi duri per gli immigrant digital come me, che non solo orecchiano appena le nuove tecnologie, ma anche l’inglese, dato che – ringraziando l’intramontabile, spiritualista e fascista Giovanni Gentile e la sua sempiterna riforma della scuola (1923), che sopravviverà anche alla renziana “buona scuola” – non mi è stata data l’opportunità di imparare le lingue straniere da piccolo (l’unico modo per imparare a parlarle davvero). Noi siamo irrimediabilmente esiliati dal nuovo mondo.
Tornando al dunque, Periscope trasforma tutti in potenziali broadcaster, cioè dà a tutti la possibilità di essere un’emittente televisiva: infatti il solito termine inglese indica sia l’emittente, il massmedia, sia chi lo usa per trasmettere, quindi il giornalista televisivo; almeno così recita più o meno il dizionario Garzanti on line. In parole povere: chiunque con l’idoneo telefonino può filmare tutto quello che gli aggrada e attraverso un apposito sito planetario – come quello degli altri social network – metterlo in rete in tempo reale e addirittura programmarlo come una qualsiasi trasmissione televisiva, in modo da permettere agli interessati di collegarsi all’ora giusta. Insomma una potenziale mondovisione. Tutto questo rappresenta una potenziale libertà senza confini perché si può mettere in rete contenuti censurati dalle grandi reti massmediali, ne abbiamo avuto sentore nei video cosiddetti “amatoriali” delle grandi catastrofi naturali, riprese da osservatori occasionali, o in quelli di avvenimenti politici non graditi dai regimi (si pensi alle cosiddette “primavere arabe”). Non credo che di per sé ciò rappresenti un incremento della cosiddetta “democrazia digitale” – che già ha i propri ottusi estimatori – perché tanta libertà spinge già ora (in alcuni paesi retti da regimi autoritari) a censurare preventivamente i contenuti politicamente pericolosi. Rappresenta comunque un altro passo avanti verso il definitivo superamento della classica nozione di copy right, che pretendeva di tutelare i prodotti dell’ingegno, cosa ormai improponibile, superamento che rappresenta un ulteriore passo nella progressiva “proletarizzazione” di ogni funzione intellettuale. Quindi anche questa nuova applicazione elettronica – come tutte le altre – si presenta ancipite: foriera di nuova libertà, di possibili sabotaggi dei nuovi padroni del linguaggio (stile Anomimous), e anche di nuovi e più stretti controlli informatici. Dal mio punto di vista il nuovo diluvio di immagini, notizie ecc., che invaderà la rete planetaria e i cervelli non solo elettronici, ma anche residualmente umani che vi si connettono di continuo, ci condanna a perdere ulteriormente relazione con la realtà sensibile, quella dura e non virtuale. Dunque aumenta l’esilio a cui siamo condannati.
Rileggendo questa cronaca noto come essa gronda sempre di più di termini tecnici anglosassoni, che mi intigno a scrivere in corsivo per marcarli come “alieni” o almeno diversi rispetto alla nostra lingua italiana; delle due l’una: alla fine o mi rassegno a scrivere in corsivo e in inglese o mi taccio per sempre