La cintola dei pantaloni gli stringeva l’addome in un abbraccio esagerato, così la slacciò. La pancia respirò libera e il sangue affluii meglio al cervello; la luce ritornò a creare per i suoi occhi le immagini, e il pensiero divenne limpido come non mai. In quella bettola di montagna al fumo della stufa e delle castagne arrosto, riempì di nuovo la bocca di una sorsata di vino rosso. Saltò, aiutandosi con una sedia, su un tavolo e guardando dall’alto le teste, tutte con il cappello, e le facce quasi tutte con il sigaro in bocca, cominciò: “Maremma, chi l’avrebbe mai detto! Chi avrebbe mai immaginato che in un attimo fosse possibile capire quello che tutti in una vita non comprendono. Ehi, caponi, non fate quegli occhi, ascoltatemi. Chiudete le bocche spalancate e fatevi attenti, o vi prendo a calci. Te, oste, servi da bere a tutti. Oggi 20 novembre 1877 Arnoldo vi racconterà quanto sia buffa e veloce la voce della mente. Come arrivi sempre a vuoto, toccando le cose e il niente delle nostre vite come se invece fossero universi di importanza assoluta. Ahi, ahi, ahi, che male fa la dura esistenza fatta di lavoro, di delusioni, di tristi amori di ripiego; quanto cuoce vedere altri più belli, più intelligenti, più ricchi e più fortunati in tutto e per tutto. Che voglia di bestemmiare sale dal ventre, contro il destino e noi stessi. Noi che in fondo siamo solo povere vittime del caso e della malasorte ingiusta, perché noi non ci meritiamo sofferenze e fregature; noi siamo solo dei disgraziati. Vero!? Non è così? Eh, allora!? Voi che siete a quest’ora solo stanchezza e vino, rispondete! Questo pensiamo in tanti qui dentro. Qui dentro, tra queste pareti, c’è una piccolissima, microscopica particella di umanità…peccato; gli altri sono tutti fuori: al vento, come foglie, come fiori di pioppo; svolazzano posandosi dove quello li fa posare. C’è però anche tanta grazia, bellezza, gioia spensierata di vivere, che sé ne frega di noi, che segue quelle foglie, che ogni tanto le sfiora facendole girare su sé stesse come trottole. Ehi, che c’è? Avete visto il diavolo, pensate che io sia impazzito? No, no, amici, cari disperati amici, potrei in questo momento parlare al mondo, a veri signori, che hanno studiato, che sanno dove sta il bene e il male, potrei parlare a cani e porci senza vergogna. Perché nella vita ogni tanto bisogna uscire dai gangheri e straparlare se si vuol sopravvivere. E’ necessario. Il vino, oste! Il vino…manca il vino! Non stare costì in un angolo, non sono un lupo mannaro, sono Arnoldo, il tuo caro compagno di carte. Sono io. Che c’è, non mi riconosci? Pensi che sia impazzito? No, no. Carlino…l’oste non può aver paura di suo fratello. Carlino, sono anche tuo fratello io: sono il figlio ti tua madre e di tuo padre. Ma più giovane, si più giovane; ma più vecchio, si più vecchio. Anzi sono Matusalemme. Sono un Matusalemme arcistufo mortalmente di questa noia che viene da fuori avvinghiandoci dentro.” Oreste lo guardò a collo piegato, poi di scatto si rizzò in piedi e come un fulmine salì anche lui su un tavolo e disse: “Vediamo il mondo a scomparti, ogni singolo evento che ci appartiene prende il sopravvento su quelli che non ci riguardano. Pensiamo troppo, anzi pensiamo soltanto a ciò che abbiamo vicino, attaccato addosso; perdiamo la voglia di conoscere il mondo lontano. Siamo pieni delle nostre miserie. Ma di là dal mare ci sono fiori e animali che non conosciamo, di là dalla strada, nella casa di fronte, altre anime, altri respiri; di là dal paese donne e uomini che non conosciamo e tutto questo non può interessarci, non può toccarci. Io ho perso il padre a soli due anni; la madre quando ne avevo quattro; ho cominciato a tagliare il bosco a sei anni e ho fatto l’amore, la prima volta, dentro una botte sporca di vino, a diciannove: uscimmo da lì macchiati di rosso, sudici come due animali, storditi e incapaci di vivere l’amore con tenerezza. Mesto mosto, mesto mosto! Che fa fuori, nevica? Voglio la neve. Tutto diventi bianco, che copra anche le nostre anime, che avvolga candida i nostri cuori. Vino e neve…ecco il destino degli uomini sui monti.” “Si, si, nevica fuori. Nevica forte.” gridò qualcuno. “Aprite la porta allora. Fate entrare anche qui la tormenta, fate che spazzi via la nostra apatia, che ci sferzi e ci conduca oltre i grigi muri delle nostre dimore. Io non voglio ritornare a casa, voglio volare.” urlò Arnoldo. I più cominciarono ad impaurirsi, a credere che i due fossero impazziti. Si mormorava tra il fumo dei sigari che il bere gli aveva dato alla testa sul serio quella sera. “Son matti” si dicevano negli orecchi. “Scendete da quei tavoli, forza. Ora basta. Fateci giocare a carte in santa pace” dissero. La porta si aprì e Mauro il falegname entrò; imbacuccato come Babbo Natale, pestando i piedi ed imprecando. Si fermò in mezzo alla stanza mentre tutti tacquero sorpresi. Lui li squadrò uno a uno, meravigliato da quel silenzio assoluto, e dagli sguardi puntati sulla sua figura. “Ma che diavolo avete? Che vi prende? Siete impazziti?” disse. Oreste dall’alto del tavolo, indicando uno ad uno i presenti, facendo scorrere su tutti l’indice della mano destra allora parlò così: “Maurino, è arrivato Maurino, condotto qui dal destino di una giornata qualsiasi. Noi tutti siamo come lui quando nasciamo: entriamo all’improvviso senza sapere cosa troveremo nella bettola della vita. Allora, dicci, Mauro, quanto nevica fuori?” Lui si riassettò il pesante cappotto, si aggiustò il cappello, e con calma si accese un sigaro, poi parlò, come se fosse un altro uomo, così: “Nevica tanto – e tirò una boccata di fumo -, nevica tanto e spero non smetta più. Spero che ognuno di voi respiri l’aria che io ho respirato prima di entrare qui; stasera è una serata speciale, io ho visto cose qui fuori che voi mai immaginereste. Pensate, proprio qui, a un passo da questa porta, cade neve dai fiocchi di mille colori. Ogni fiocco cerca qualcosa…come lo so? Parlano, non ci crederete ma parlano; scendono giù parlando, e dicono di cercare ognuno un uomo a loro amico. Si, avete capito bene, quelle false candide piume di neve cercano, ognuna per conto suo, un proprio amico. Ho sentito, i nomi che pronunciavano: Paolo, Giovanni, Adolfo, Marco…e tanti altri bisbigliati, tra il frusciò di un vento strano che accompagna la loro discesa. Sembrano bianchi, candidi…ma poi quando li avete vicini si rivelano colorati come le strisce dell’arcobaleno; sono fiocchi impazziti che hanno voglia di fare baldoria. Mi hanno detto che si sono stufati del gelido mondo dell’iperuranio. Mi hanno detto, con un coro di miriadi di voci, che hanno sete di sentimenti e passioni, sono stufi di gelide essenze. Vogliono avere tra i loro cristalli vino e sangue…così mi hanno detto.” Dalla porta lasciata aperta scivolò tra quella gente l’ululato della montagna, si avvinghiò con le sue spire ai tavoli, e ai corpi, avvolgendoli. Poi, con un tonfo sordo il legno dell’uscio si saldò alle pareti. Tutto tornò come prima della follia, tutto rientrò in sé, e tutti tornarono come se niente fosse a giocare e a bere. Nessuno ricordò nulla di quei venti strani minuti.