La storia di una storia è un’altra storia. Raccontare come nasce un racconto non è difficile; io ad esempio faccio così…
Proprio all’ultimo momento, dopo aver pensato un po’, smetto di pensare e lo schermo bianco del computer mi appare come se fosse legno o un pezzo di marmo, o meglio argilla morbida e plasmabile. Ecco che, allora, in questa materia introduco una sonda, un corpo estraneo sotto forma di parola nera, che sta ferma in alto, in un angolo, all’inizio della pagina; si siede comoda senza che la mia mente la disturbi, cominciando ad osservare lo spazio intorno, per capire se altre macchie scure, se altri suoni silenziosi, dormano sotto quel manto di neve. E’ collegata a me non da un cordone ombelicale ma da un’eco confusa, in principio leggera poi sempre più forte; non diviene col tempo più chiara, anzi si fa più confusa, una sorta di reticolo ondulato fastidioso fatto d’ansia, che provoca in me incapacità di concentrazione, ed è questa la condizione mentale in cui nascono come funghi parole nei miei occhi. Mentre ascolto il loro suono, le mani si muovono battendo i polpastrelli sopra i tasti neri con intagliate le lettere vestite di bianco: qui, in questa minuscola necropoli piatta, fatta di lapiduzze quadrate, vive l’antimateria; un’altra dimensione, da cui nasce il suono di un tamburo. Bum, bum, bam, bum… Un argomento vale l’altro, di tutto possono parlare quei segni, mentre il mio cervello ridotto a un buco nero attrae le loro forme risucchiandole. Dubito capisca ciò che dicono. Dite che si vede? Non c’è bisogno che lo dica, risulta fin troppo evidente? Si, avete ragione, è proprio così. E’ per questo che scrivo, per mostrare quanto confuso io sia. Quanto caos conservi in me. Tutto questo mi piace. Ora, è evidente che tutti scriviamo per piacere, per il gusto che proviamo facendolo, ma non tutti, forse, comprendono quanta ipocrisia mettiamo nel farlo. Qualcuno mi leggerà e dirà “che bravo, come scrive bene”; qualcuno penserà “chissà cosa vuol dire”; qualcuno “si vede che ha qualcosa da dire” ecc. E questo è un livello. Ma ce ne sono molti di livelli. Molti sono i gradini dell’animo umano, tanti da risultare una massa grigia informe, troppi per poterne vedere anche uno solo chiaramente. Qualcun altro mi leggerà e dirà “incomprensibile”; qualcun altro “come scrive male, quante parole sprecate, insulse”; qualcun altro mi leggerà senza leggermi, così per perdere tempo. È infinito il numero dei giudizi possibili che chi, come me, riempie giornali di parole, può provocare nei lettori. Loro sono loro, noi non sappiamo invece chi siamo. Non sapendolo ci corriamo dietro. Ma se io non so chi sono, a chi posso correre dietro? A nessuno. Ecco, siamo arrivati. Io non so cosa scrivo. Ciò che mi pubblicano in questo confortevole e compiacente giornale, io lo trovo per caso già scritto nell’aria che c’è tra il mio sguardo e la pagina bianca vuota. Non dovete, quindi, darmi colpe o responsabilità per i contenuti e la forma, né restarne compiaciuti: essi non sono opera mia. Tutt’al più biasimarmi o lodarmi per la perseveranza con cui mi siedo al tavolo davanti allo schermo di questo accidenti di computer.