Siamo nel territorio a sud del Monte Amiata, ai piedi del Monte Civitella, dove sorge Castell’Azzara, la sentinella sud-orientale del territorio amiatino che domina, con i suoi 815 metri di altitudine, un paesaggio magnifico che dalla Val D’Orcia abbraccia la Maremma, la veduta di Radicofani, il Monte Cetona, Acquapendente, il lago di Bolsena e la magnifica città del Tufo. Un paese immerso nel magico connubio con la natura e con la storia, ma forse non tutti sanno che deve le sue origini, probabilmente, ad un curioso episodio di gioco d’azzardo che inizia con un salto indietro nei secoli.
Per abbracciare questa vicenda è necessario, con un volo d’angelo, tornare indietro nel tempo. Siamo nel XIII e XIV secolo periodo in cui, prima dell’avvento delle carte da gioco, l’azzardo equivaleva al gioco dei dadi: venivano praticati molti giochi, anche se il più diffuso rimaneva la Zara, derivante dall’arabo az-zahr così come la stessa parola ‘azzardo’. Capire come si giocava alla Zara non è cosa semplice. Una possibile interpretazione poteva essere la seguente: si giocava in due, un giocatore faceva il Banco e tirava i tre dadi. I possibili totali andavano dal minimo di tre ad un massimo di diciotto: i risultati più bassi (dal 3 al 6) e più alti (dal 15 al 18) venivano chiamati Azar, mentre i risultati centrali (dal 7 al 14) venivano chiamati Sorti. Cominciava così la mano di Zara e il Banco tirava i dadi: se faceva un Azar vinceva e la partita era finita; se faceva una Sorte il numero uscito veniva attribuito all’avversario e ritirava i dadi. In questo secondo caso il banco tirava nuovamente, facendo il suo secondo turno: se faceva un Azar perdeva e la mano era dunque finita; se faceva la stessa Sorte di prima la mano era nulla e si ricominciava di nuovo; se faceva una Sorte diversa la attribuiva allora a se stesso e ritirava i dadi. In questo terzo caso il Banco continuava a tirare i dadi finché non usciva una delle due Sorti prima determinate: se usciva quella dell’avversario il Banco allora aveva perso; se usciva la sua il Banco vinceva. Un po’ confusionario agli occhi inesperti di noi contemporanei, ma assicuro che al tempo era veramente coinvolgente tanto che non era raro, probabilmente, tra le vie dei paesi udire urla di incitamento ed esortazione verso i numeri che sarebbero dovuti uscire.
Forse i più esperti di gioco se ne saranno già resi conto, ma la Zara può essere facilmente considerata a tutti gli effetti l’antenato del moderno Craps, gioco d’azzardo che riguarda proprio una sfida fra il giocatore che lancia i due dadi e l’avversario: un solo giocatore lancia i dadi e l’altro è spettatore passivo seppur, alla fine, coinvolto nel risultato; alcuni risultati, poi, fanno determinare subito la mano stabilendo già la vittoria di uno dei due, altri fissano un numero che bisognerà cercare di riottenere, proprio come nella Zara.
È proprio tra i turni del gioco della Zara, così diffuso nei secoli, che sembra nascere il nome della nostra Castell’Azzara e in particolare tutto prende da una leggenda piuttosto curiosa.
Ai primi anni del Duecento, tre fratelli della nobile casata degli Aldobrandeschi, Ildebrandino, Bonifacio e Guglielmo, mentre erano a controllare il bestiame al pascolo, giunsero su un colle particolarmente ameno, da cui si dominava con facilità l’intera zona e dove erano già disposti strategicamente alcuni castelli: decisero dunque che in quel punto, alle pendici del Monte Civitella, sarebbe stato opportuno erigerne un altro, ma non riuscirono a mettersi d’accordo su chi ne sarebbe stato il fondatore. Così pensarono di risolvere la questione giocando a dadi e la vittoria sarebbe andata a chi avesse ottenuto più punti. Il gioco della “zara”, cioè dei dadi, dette quindi il nome di “Castello a zara”, da qui poi Castell’Azzara, alla nuova struttura fortificata, che con la successiva divisione tra i componenti della casata degli Aldobrandeschi, nel 1274, divenne feudo del ramo di Santa Fiora. L’episodio probabilmente viene ripreso anche da Dante che, nella terzina d’apertura del VI canto del Purgatorio nella Commedia, sembra quasi descrivere l’incredulità di chi perse un castello in questo modo: “Quando si parte il gioco de la Zara / colui che perde sì riman dolente / repetendo le volte, e tristo impara”. A conferma della leggenda, lo stemma di Castell’Azzara mostra un castello con tre torri, ognuna delle quali è sormontata da un dado con un numero: la centrale, più alta, ha il vittorioso cinque, le altre due rispettivamente il tre e il quattro. Quando poi nel 1438 morì l’ultimo discendente del ramo degli Aldobrandeschi di Santa Fiora, il conte Guido, il castello, insieme ad altri possedimenti passò agli Sforza e precisamente a Bosio Sforza, in virtù del suo matrimonio con Cecilia Aldobrandeschi. Gli Sforza ne restarono proprietari fino al 1624, quando il territorio venne annesso al Granducato di Toscana. Nel 1915, poi, Castell’Azzara, il cui sviluppo economico era sensibilmente in crescita per via delle miniere di cinabro, minerale da cui in tempi moderni si era cominciato ad estrarre il prezioso mercurio, divenne comune autonomo, staccandosi finalmente da Santa Fiora.
Castell’Azzara rimane ancora oggi un paese intriso di storia e fascino, nei cui vicoli si respira ancora oggi il profumo di antichi ricordi.