Non è la causa nel tempo ma il tempo nella causa. È un suo aspetto. Quindi si converte esso in quella e non viceversa. Così scorre la storia dell’avere, senza motivo, solo perché scorre. È il succedersi che da l’illusione della causa. L’uomo poi immette in questo scorrere la soggettività e pone il primo suo sentire a fondamento. Questo sentire è il corpo. Nel corpo governa la prima immagine che appare al singolo. Questa immagine è data ad esso semplicemente dal suo apparire. Singolo è la chiusura della cinta muraria temporale costruita intorno alla prima nota del nostro avvento. È l’imprintig dell’essere. E come gli anatroccoli seguono il movimento della prima cosa che vedono dopo la loro nascita, così l’essere segue il suo apparire evento dopo evento, in una catena temporale che crea spazio per svolgersi. Nel percepire del singolo la quantità diviene esclusiva priorità di un corpo quando esso si percepisce come contenitore. Perché il mondo è abitato da cose. Le cose nascono e prendono valore nel momento in cui la dualità soggetto oggetto viene creduta vera. Il singolo però non è doppio ma nemmeno uno, perché il pensiero può solo avere il controllo e quindi nel caso del cervello essere a posteriori. Come ben si vede da come scrivo, dalle connessioni tra proposizione e proposizione, nego ciò che dico. Lo nego perché se io non ho il controllo di cio’ che dico, non essendo a priori di esso, è chiaro che posso dubitare delle mie parole. Io sono produzione sonora. Le parole danno suono sempre; è cioè nel loro essere la rumorosità, anche quando sono silenziosamente pensate. Pronunciamo sempre le parole anche quando le pensiamo le pronunciamo silenziosamente. Chiarisco qui che l’esistenza di ciò che chiamo essere è monolitica senza enti. Quindi non ci sono né ontologia e né ontico: l’essere contiene sé. Quindi l’essere non è perché gli enti non esistono. L’uomo infatti non c’è, anche se sembra davvero difficile comprendermi, io non posso dire io sono. L’anteriore alla nostra produzione sonora fa che noi si sia contenuti nel linguaggio. Ora il problema è: se chiunque può produrre le mie parole, perché io non ho il controllo di esse – non le faccio -, io sarò solo la superficie su cui scorrono. Tutto ciò che nel mondo l’uomo fa non è fatto da lui. Perché tutto è costruito con il linguaggio. Il motivo alla base di questo fatto si può riassumere umanamente con la parola perché. Già ho detto che la causa piega la parola tempo, o meglio la crea. C’è chi prova a ridurre il tempo solo al futuro o al passato o al presente ma esso è inganno contenuto nell’essere uomo. In che senso? In questo: ora è la posizione centrale, prima e dopo sono ai suoi lati; l’immobilità dell’essere ha bisogno, per camuffarsi, di questo. Il movimento del prima verso l’ora e il dopo, viene rappresentato dall’uomo, senza però che ne abbia consapevolezza, con il tempo. Il tempo è spazio. Ma lo spazio non ha senso senza tempo, infatti da qui a lì c’è distanza perché c’è un tempo che li divide. Tempo e spazio si fagogitano emettendo, come un rapace deietta il suo lobo, la bava che costituisce la conchiglia dell’essere. Essi sono la sua vischiosità e contribuiscono a nascondere l’abisso del nostro a posteriori. Cosa significa la parola perché? Perché è parola monumentale, è la cariatide su cui poggia il tetto della causa. Nel linguaggio se dico “perché lo hai fatto”, sia che ponga una domanda sia che affermi, il significato sta nella giustificazione esistenziale dell’azione. Giudico implicitamente l’essere. “Perché” non ha realtà; nasce dalla causa astorica. L’essere si mostra, dopo la distruzione del tempo avvenuta nello stomaco della causa, immobile; perciò “perché lo hai fatto”, interrogativo o affermativo che sia, è “lo hai fatto”. E qui non c’è giudizio. Anche se non lo pronuncio il perché può essere posto enfatizzando o interrogando. Un punto esclamativo o interrogativo sono “perché”. Sorge allora la conclusione che il linguaggio, visto che è fatto anche di toni, sia una sorta di integrazione di segni grafici e puramente sonori. Un punto interrogativo ha un suono riscontrabile nell’intonazione. Esso è contenuto nelle parole scritte o dette o fatte con le mani o le espressioni del corpo. Tolta l’intonazione noi vediamo che la percezione dell’essere scompare. Infatti io volevo domandare o enfatizzare. Se dico “lo hai fatto” solo per descrivere, l’essere giace falsamente sulle parole. Il soggetto e l’oggetto non hanno essere. Parmenide non doveva dire l’essere è, ma la poesia è l’essere. Forse ha provato a farlo scrivendo in versi; cosa più unica che rara per i filosofi. Quelle intonazioni sono ciò che noi chiamiamo soggettività, ma in realtà sono il contatto tra le cellule del mio cervello e l’apparire della consapevolezza nella pedana di scorrimento su cui esse scrivono. L’uomo che noi conosciamo non c’è. Esso deve ancora nascere e nascerà nel momento in cui lo scorrere del suo pensiero-suono rimonterà alla sorgente da cui sgorga, al punto in cui la penna del nostro cervello tocca la nostra carta sottilissima. Vis à vis conclusivo, potremmo dire, con il mistero: da questo incontro terrificante dovrà sortire l’aut aut al suo continuare. Poesia è anche la grafia del gesto fatto dal corpo che accompagna il pungolo della carne sotto la sinuosa spinta dell’a priori primigenio fuori dal nostro controllo. Quando Kierkegaard fa del ricordo un segreto separandolo così dalla memoria del tempo che non c’è, pone il punto focale prospettico dove io appaio: così il ricordo diviene “l’essere è” parmenideo. La prima immagine si manterrà immobile nel suo suono visivo e tattile, come dentro un blocco di granito senza possibilità di uscita. Questa è l’esistenza dell’uomo.
Continua… forse