Le facciabianca con i colli fuori dal pelo annusavano l’aria; si mossero goffamente cercando di uscire dal torpore del sonno; rinchiuse nella massa bianca del mio amico, era come se questa non le volesse lasciare. Qua, qua, qua…e una per una se ne volarono via. Volarono all’inizio in fila poi, in alto, si disposero a cuneo scomparendo dietro le alture. Grieg si alzò biasciando, scosse la testa lentamente, si stirò come un cane allungandosi sulle zampe posteriori, mentre io lo accarezzavo sulla testa. “Andiamo, mi aspettano.” gli sussurrai all’orecchio; salii sul suo dorso e ci avviammo. “Allora, cosa vi siete detti?” mi chiese. “Molto. Mi ha dato una lettera della nonna”. “Uh, una lettera della nonna! Signori e signori, conduco alla meta il prode, lo porto verso una risposta. Capite? Una definitiva risposta! La sua avventurosa corsa per le strade del mondo ha trovato un’oasi confortevole. Ehi, presuntuoso di uno svalbardese non penserai mica di comprendere le parole della vecchia senza un aiuto. Hai la mente acerba e confusa per farlo”. Gli afferrai un pugno di peli sul collo, e lo strattonai scuotendolo: “Sei un rompiscatole inguaribile. Pensa a muoverti velocemente e tieni ferma la lingua se non vuoi che te la tagli”. “Che paura! Il tuareg dei ghiacci si è offeso”. Una lettera, cos’è una lettera? Parole lontane, o la voglia segreta di nascondersi agli altri? Si scrive una lettera non solo quando siamo distanti da qualcuno a cui vogliamo dire qualcosa, ma anche quando non desideriamo rendere pubblico, o solo non rischiare di farlo, un sentimento, un resoconto… le proposizioni si dipanano al coperto, protette dal mondo e da uditori estranei, racchiudono speranza e fiducia in noi stessi; il soggetto ha l’illusione di essere così potente da affermare cose come se fossero assolute. Anche nel dubbio. Il dubbio diviene una possibilità evanescente se non fondato sulla realtà oggettiva dell’esterno; parliamo di noi e di altri con la pretesa di esser sicuri di quanto affermato. “Sospetto che lui pensi questo…” significa in realtà, perché detto a qualcuno che vive in quel momento solo nel nostro ricordo, “Sono certo che lui…”. Una teoria, un’idea banale, divengono se scritte, nella mente di chi lo fa, già appurate, vere e certamente profonde; tanto nessuno oltre all’altro può contestarci. Parole d’amore, d’odio, riescono meglio, più chiare, perché le dita che scrivono non arrossiscono né lasciano trasparire incertezza. Io sono libero di immaginare l’altro che legge assentire, concordare con ciò che compare sul bianco della carta, e lo vedo che diviene me stesso nell’ascoltare le mie parole, dandomi la sicurezza di continuare. Per questo spesso le nostre lettere sono fraintese. Lo sono già in partenza, perché le scriviamo a noi stessi. Pensavo questo mentre la grande schiena dell’orso bianco mi trasportava verso la piazza. Dondolando, dondolando, mi perdevo nella paura che la nonna avesse messo troppo del suo in quelle righe. Finalmente arrivammo, Grieg annusò l’aria allargando le narici: “Eccoli, i tuoi compagni; sembrano stoccafissi. Mah, speriamo non congelino.” Erano in fila, come soldatini in attesa mi aspettavano; uno si staccò dagli altri e mi venne incontro. “Abbiamo freddo, vorremmo tornare prima di congelarci. Partiamo?” mi disse rigido come un palo. Non volevo lasciare quel luogo, ma rischiavo di farli congelare se la mia mente non si fosse decisa a staccare il mio cuore dalle Svalbard. Li guardai come fossero alieni, poi chiusi gli occhi e finalmente sentii il frusciare degli aghi dei pini neri, delle foglie dei cerri e dei carpini, l’odore dei sassi e della terra della montagna castellazzarese. Volammo di nuovo, seduti con le gambe incrociate, con i visi protesi in avanti, sparati sopra le acque oceaniche, a bocca aperta e con le gote gonfie d’aria, eravamo un assurdo gruppo di peregrini senza santuario, senza fede, eravamo la cosa più stramba e buffa che avesse mai solcato i cieli. Io ero davanti a tutti seduto isolato quasi al bordo della piazza, vedevo sotto di me nuvole e veloci passaggi di terre e di onde, mi allungavo tentando di sporgermi oltre la linea di confine tra la piazza ed il niente di quell’immenso susseguirsi di raffiche di immagini. La lettera dentro un sacco di tela legato al collo mi sbatteva sullo sterno, mi diceva di leggerla. Da sotto i glutei cominciò a crescermi intorno una grande poltrona; la costruii comoda e ricoperta di pelle di renna, la collocai al centro di una biblioteca lunga e stretta; lunga come una via cava aperta nel tufo, alle pareti vi posi file di libri dentro scaffali di legno scuro; non ero fermo, la poltrona scorreva come la pellicola di un film all’interno di quell’immagine; viaggiava a velocita vorticosa tanto che tutto all’esterno risultava sfuocato, con i contorni allungati, mentre io invece ero immobile al centro di tutto. La piazza si chiuse su sé stessa come il guscio di un uovo, i volti dei miei amici amiatini si disposero sopra di me a corona; erano una cupola d’occhi sulla lettera, ora aperta di fronte al mio sguardo, su un semplice tavolo di legno a tre gambe. Così lessi, in silenzio: “Tempo è una parola, solo una parola, ma è incisa a fuoco nella mente dell’uomo. Come si può credere al niente del tempo che non c’è? Come è possibile comprendere fino in fondo il significato della sua inesistenza? Perché il tempo, caro nipote, non esiste. Marchiamo ogni istante della vita con parole che segnano con evidenza la sua presenza, come oggi, domani, ieri, quasi timorosi di perderci nel nulla. Adesso che leggi queste righe…”
Continua