Negli ultimi anni ho dovuto frequentare con una certa regolarità l’ospedale per motivi personali, nel senso che ho avuto bisogno di ricoveri per cure proprio per me stesso.
E non sono state sempre passeggiate, qualche volta anche con una discreta “strizza” anche perché, pur non trattandosi a priori di “vita o di morte”, sempre in un reparto di terapia intensiva sono poi passato. Chi c’è stato lo sa, chi non c’è stato vi dico che è un’esperienza abbastanza forte, se così si può dire. D’altra parte i casi da trattare vanno dai meno gravi ai gravissimi con possibilità di prendere il treno per l’ultimo viaggio.
Se abbiamo la “fortuna”(?) di arrivarci lucidi, com’è successo a me, poco dopo l’arrivo si comincia a studiare l’ambiente, i macchinari, i suoni più disparati di allarmi che suonano in continuazione e ai quali dopo poco ti abitui come fanno gli infermieri. Ma la notte no: ai rumori della notte non ti abitui.
È soprattutto l’elemento umano che ti fa sentire “in piazza”! Nel senso che ci trovi di tutto. Dal novantacinquenne che quando è sveglio e arzillo mette tutti di buon umore con battute irresistibili e che quando invece parte per la tangente o ti fa ridere ancora di più o ti fa una tenerezza infinita ascoltando il suo farneticare apparentemente senza senso. Per non parlare di nomi – quasi sempre di donna – che vengono urlati improvvisamente, specie la notte, come un disperato richiamo. Dall’uomo di mondo che si trova li vai a sapere per quale perverso gioco del destino, alla signora i cui occhi potrebbero ispirare pagine intere di poesia.
Inizialmente, quando appena arrivato, li senti estranei, come in fondo sono. Ma bastano poco tempo, magari un giorno e una notte e già tutto è cambiato. Ti parli con i vicini, arrivi in quattro e due sei a darti del tu in una maniera incredibilmente sincera e automatica, e poi cominci a scoprire qualche legame nemmeno sospettato. O è parente di uno del tuo paese, se non alla lontana anche tuo, o abita in un podere davanti al quale sei passato almeno mille volte, e così via. Poi c’è forse un altro aspetto che, diciamo, aiuta ad entrare in sintonia alla svelta. In quei luoghi la privacy (cioè la riservatezza) ha un significato molto relativo e un po’ diverso dal normale. Infatti, non essendoci camerette singole o altri sistemi di divisione acustica nella camerata, ogni più piccolo segreto della tua vita privata corporale e sanitaria la condividi con i tuoi “compagni d’avventura”. E non solo perché ci sono tutti i rumori che certamente non puoi chiedere di ridurre o di andare ad eseguire al bagno. Anzi c’è un servizio personale di igiene della persona da parte degli infermieri, uomini o donne che siano, che in questo senso sono veramente bravi, professionali e rispettosi della dignità tua e della loro. Sempre per la privacy dopo poco il ricovero vieni intervistato da un medico e l’unico schermo acustico è una tendina di stoffa che viene tirata tra il tuo letto e quello dei vicini. E sei costretto ad ascoltare un interrogatorio del tuo vicino, che nemmeno una confessione di un condannato a morte può nemmeno lontanamente uguagliare, perché ti chiedono cose talmente personali da lasciarti sbalordito più che imbarazzato.
Certo per le proprie traversie personali può apparire una cosa un po’ strana. Per esempio a me, ma anche per tutti gli altri, tutta l’esposizione del caso clinico fu tenuta alla presenza dell’intera camerata. Ma in assenza di mia figlia che, fuori della porta, non poteva entrare. Questo genera anche ad un’altra conseguenza: che devi dare una risposta, manco si trattasse di un esame (in effetti, è molto di più e con conseguenze ben più importanti) da solo, senza il conforto di un familiare che magari sarà provato emotivamente come te, ma almeno è lì in piedi e si suppone in condizione di aiutarti a prendere la migliore decisione. Perché questo in fondo devi fare: dare una risposta, e alla svelta, perché ogni minuto perduto può diminuire l’efficacia dell’azione da intraprendere. E naturalmente firmare il consenso. E questo secondo me è veramente ridicolo e surreale. In quelle condizioni di spirito, con una tranquillità che è più vicina ai valori negativi che allo zero, firmi qualcosa che ti riassumono, ma che non puoi leggere e comprendere veramente, ma devi firmare perché se no non si può procedere…….Con i pochissimi e lontani ricordi di studio di diritto mi domando se veramente ha validità un documento firmato in queste condizioni.
E se non c’è nessuno prendi la tua decisione con la silenziosa e dignitosa presenza della tua camerata. Siccome poi la cosa è reciproca, anche te cerchi di ricambiare comportandoti nella stessa dignitosa maniera.
Insomma, sarà per questi fatti, sarà perché quando si vivono e si corrono pericoli insieme ad altri, la facilità di conoscenza e cameratismo reciproco viaggiano a velocità supersoniche. Sta di fatto che dopo un giorno e o due siamo tutti molto più vicini e intimi di persone che magari conosci da una vita. Prima uno sguardo negli occhi, poi una spallucciata, poi un mezzo sorriso, se ce la fai, e già ci siamo detti mille cose. Fortunatamente per me dopo pochissimi giorni ho lasciato, prima il reparto di terapia intensiva e poi, l’ospedale. Quando ci siamo lasciati mi pareva di rivedere il film di quando siamo stati congedati alla fine del servizio militare: promesse e giuramenti, quasi mai rispettati, tipo: “ti vengo a trovare appena posso, ritroviamoci, auguri, baci” e via dicendo. Se l’hai scampata, per questa volta, con la salute, hai anche il conforto di nuovi rapporti umani così belli da sembrare impossibili appena rimetti i piedi fuori da lì e ritorni nel “mondo reale”. Ma insomma è stata un’esperienza bella. Dal punto di vista dei tuoi compagni, o camerati, il meglio del meglio che si può, venuto fuori perché s’era tutti li e non al mercato.
Se no è capace manco ci si musava, pe’ un di’ di peggio…….
Insomma, li si da sicuramente IL MEGLIO DI NOI.
IL PEGGIO
Sempre nello stesso luogo, l’ospedale, pochi giorni dopo, e a poche decine di metri dal reparto dove ero stato ricoverato. Dovevo fare un prelievo del sangue. E lo dovevo farlo proprio li perché poi i risultati dovevano essere recepiti da un certo ufficio, e bla bla bla… Abbastanza esperto del luogo per averlo purtroppo frequentato spesso, mi alzo prestino, anche perché alla mia età non mi scomoda. Anzi, se mi alzo alle 5 faccio con calma le mie cosine, poi vado al pc, guardo la posta, rispondo a qualcuno e poi, con calma alle 6.30 parto perché è inutile andare prima: troverò senz’altro gente prima di me, ma tanto l’esame mio ha la precedenza per cui se anche non arrivo tra i primi, recupero un po’ di posizioni. Davanti alla stanza dove sono fatte le accettazioni per i prelievi c’è un casotto avanzato in alluminio in cui entrano – abbastanza stretti – una quindicina-venti persone, in piedi (a sedere c’è posto solo per 4), e il resto stanno fuori.
Arrivo alle 7 in punto e vedo che il casotto è già tutto pieno e anche fuori c’è una bella fila. Ma tanto ci’ho la precedenza.
Arrivando chiedo chi è l’ultimo, l’ultimo con il tempo di Quick (PT)? Io, mi fa un signore, ma il tempo di Quick non c’è più e siamo in una fila unica. I tempi cambiano, bisogna aggiornarsi. Ma quando parto per queste cose mi armo di sette dosi supplementari di pazienza per cui ne tiro fuori un briciolino e resto calmo.
Entro nel gabbiotto perché fa freddo e ripeto la domanda chi è l’ultimo? Io, mi fa un altro. E io, ma a me quello mi ha detto che era lui…no no, sono io, stai dietro a me e stai tranquillo. Sono le 7 e 5, mi metto dietro lui, ma non sono poi più tanto tranquillo. Gli altri parlano ostentando inizialmente un gran savoir faire e tanta saggezza spicciola. Ma io non mi fido. Io quel gabbiotto l’ho visto nascere nei primi del 2007, quando fu trasferito il punto di prelievo del sangue: prima si stava all’addiaccio, in pieno inverno, poi ci misero questi quattro vetri nell’alluminio, senza riscaldamento, e march. Ci sono venuto per diversi mesi e conosco i miei polli anche da segnali minimi. E ora però bisogna dare la notizia chiave della faccenda. Nonostante si arrivi nel gabbiotto fin dalle 6 – ma pare che qualcuno arrivi anche prima – e si resti li fuori fino alle 7.30, per iniziare a fare i prelievi verso le 8!!!, quando aprono la porta della stanza per l’accettazione, la famigerata macchinetta per prendere i numerini non è nel gabbiotto! No, è dentro la stanza dell’accettazione.
Avrete già capito che in queste condizioni la macchinetta non serve che a far scatenare le mire di tutti i convenuti che, indipendentemente dagli scappellamenti e gli accordi presi “io sono dietro a te”, “lui è dopo di me”, ecc, quando si aprono le porte succede l’incredibile.
Niente da paragonare con le tre o quattro donne che in qualsiasi fila senza numerino mi passano regolarmente avanti: lo so, ci sono preparato, con loro non ce la faccio, lo metto in conto e normalmente digerisco la mia dose quotidiana.
No, qui siamo alle scene tipo abbandono del Titanic, con cattiverie dette con incredibile cattiveria e violenza da ogni genere di persona, donna, uomo, giovane, anziano, ragazzo, o ragazza, tutti cattivi , tutti più decisi e determinati più di Terminator.
Io subisco, provo ma non riesco a reagire, come al solito, e quindi mi consolo cercando di vedere l’inverecondo spettacolo da un punto di vista “documentaristico”, come per dire; io sono superiore e non lo faccio, mi limito a guardarvi.
Tutto è confermato dal “dopo”.
In antitesi all’esempio degli amici della “camerata” dove ci si lascia tra promesse di ritrovarsi quanto prima, qui ognuno guarda il suo giornale, o guarda per terra, o guarda l’infinito per vedere che cosa non si sa. Non ci si parla più, ti limiti a saluta qualcuno che conosci e non puoi farne proprio a meno.
Questo è veramente IL PEGGIO di noi che si può dare.
Indipendentemente dalla decisione “curiosa” dell’ospedale di continuare a voler tenere la macchinetta dei numerini non dove logicamente servirebbe, ma dove in pratica la guerra per il posto è già stata consumata. Come pure la decisione curiosa, e un po’ cattiva, per cui 30, 50, e più persone devono attendere quasi all’addiaccio “perché la porta della sala di attesa si apre alle 7.30”…..
Povera Italia, dice il mio amico G.F.………se non si riesce a risolvere nemmeno problemi di questo genere, ma che speranza c’è di migliorare il mondo per noi, per i nostri figli e i nostri nipoti, dico io?
il PEGGIO e il MEGLIO (di noi)
Ci sono luoghi dove certi comportamenti sono esaltati in maniera notevolissima proprio a causa della natura stessa in cui ci troviamo ad agire.
Ho un paio di esempi da portare in piazza sui quali chiedo poi, per chi ha voglia, di dire la sua.
Per ragioni………..tecniche ve li racconto nel primo commento a questo articolo: chi è interessato mi segua!
By Riccardo cuor di coniglio