Tutti i segnali emanati da questo momento politico rimandano ad una frattura emozionale sociale. I riferimenti del piccolo tranquillo mondo che ci conteneva, senza intrusioni mediatiche e in assenza di strumenti quali computer o cellulari, sono saltati distruggendo lo spazio e il tempo che la psiche dell’uomo si era creati. Non più vicino è l’orizzonte, e l’eco delle nostre azioni non si perde nelle stanze del villaggio cittadino o paesano, ma nelle tenebre di uno spazio ancora da riconoscere, da definire. Sembrerebbe che un progetto alchemico, calato dall’alto, come un timbro cerchi di marchiare i nostri riferimenti, provando a distruggerli e sostituirli con una cornice non nata per normale evolversi delle cose sociali. Prendiamo ad esempio l’Europa con il suo progetto; non siamo partiti da una lingua comune, ma da un sistema monetario ed economico. E questo è sintomatico. Economia, finanza, moneta, non sono cose che hanno una loro realtà ma che rimandano a qualcosa che gliela dà effettivamente, questo qualcosa è l’uomo e la sua volontà. È naturale che, se la nuova strada in cui si è incanalato il divenire politico è fatta di globalismo e antiglobalismo, risulti evidente perché da tante banche nazionali europee si sia passati ad una sola banca centrale e perché si insista tanto sulle regole da rispettare. Infatti la regola immobile, algida e severa, rappresenta l’incapacità del sistema da realizzare, che è ancora in fase di nascita e costituzione, di adattarsi all’umanità con i suoi limiti e le sue problematiche esistenziali, e da inserire, come fosse una cosa senz’anima, in quello. Si vuol controllare tutto, tutti devono essere sotto controllo, perché in un mondo dove scienza e filosofia viaggiano velocemente insieme verso la ricerca di nuove soluzioni, potrebbe essere molto pericoloso non avere il controllo di tutto per chi crede che potere e denaro abbiano un significato al di là dell’uomo. La cornice che si vuol costruire è una grande rete da pesca che rimanda, comunque, non al globalismo ma al particolare utile egoistico di pochi. Si ha quindi una falsa antitesi tra “particolare” e “generale”; in realtà l’antitesi è tra un mondo con un’etica e un altro basato sull’avere e il non avere. Dove si cerca il bene e il male necessariamente ci si scontra con il problema del senso della vita, dove invece c’è avere e non avere si cerca più tempo (immortalità effettiva del corpo) e più spazio (l’infinito dove poter ammassare sempre di più). L’abitudine è il legante trasversale delle azioni dell’uomo: maschio-femmina, ricco-povero, stupido-intelligente; ogni genere, ogni classe, ogni tipo di essere umano sottostà alla legge dell’abitudine. Ecco perché se io ho molto desidero avere di più, perché il mio essere si adagia su un’unica visione del mondo, sul mondo del qui e ora, delle cose; e costruisce sé stesso seguendo un’unica via; troppa fatica, infatti, seguirne più d’una. L’uomo fa solo cose (scelte, desideri, azioni) che gli restano più semplici, cioè meno faticose: perché cambiare significa riprogettarsi, distruggere il proprio io per cercarne uno nuovo. Ciò non significa che l’individuo abbia l’impressione di vivere una vita facile, anzi tutti noi siamo convinti di avere una vita difficile e faticosa. Se così, perché continuare a farla? Non capisco perché chi vive dei problemi non fugga da questi, anche se ai più potrà sembrare azzardato il discorso sull’abitudine, infatti basterebbe fuggirne. Ogni problema che noi abbiamo, dalla malattia, al disagio sociale, alla povertà, al desiderio di essere amati, alla ricchezza, al potere, è solo basato sull’abitudine. L’abitudine è il rapporto spazio-temporale soggettivo che si crea tra un fotogramma e l’altro delle nostre individuali esistenze. È la celluloide in cui è stampato il film dell’essere. Se io uso la droga, la droga diverrà l’abitudine della mia esistenza, dopo la sua comparsa, infatti, sia che io continui a prenderla o che io smetta, essa sarà costitutiva di ogni mia immagine dell’esistere, o come qualcosa da cercare o come qualcosa da evitare. Ciò vale per qualunque nostra scelta non contingente. Ricchezza, povertà, potere, amore, scienza, arte…tutto è abitudine. Anche la povertà: infatti essere abituati alla povertà non significa amare la povertà, desiderare restarci, ma significa farla entrare costitutivamente nello svolgersi del mio esistere: se un giorno non sarò più povero la povertà esisterà in me nel suo dover essere evitata. Essere abituati non significa scegliere il ripetersi dell’evento ma diventare quell’evento. Immaginiamoci un banchiere o un uomo di potere politico, in loro vive lo stesso tipo di essenza del più umile dei barboni: l’abitudine. Essi cercheranno in tutti i modi di mantenere o avere più ricchezza, più potere. È così che è nato il globalismo. Il globalismo è un egoismo negativo particolare fondato sulla paura di perdere l’”avere” posseduto. In nome di un falso progetto sociale, benefico per il futuro, si è fatto terra bruciata intorno a problemi come “cos’è l’uomo”, “cosa significa esistere”, ma soprattutto si è sorvolato bellamente sul “problema della morte”. Senza parlare di questi problemi è inutile fare progetti sul futuro dell’umanità. Anzi è sospetto, molto sospetto.
Vedremo…