Alibi

La continua e ostinata ricerca dell’altrove sembra caratterizzare una intera generazione. Se le sentenze amministrative che annullano concorsi su misura non hanno alcun valore, se l’ente che indice quei concorsi rifiuta l’idea di ammettere l’errore, i luoghi del sapere divengono inaccessibili. Si innalzano mura infrangibili che escludono dalla ricerca chi potrebbe avere la forza di proporre innovazione, che a volte è anche e necessariamente rottura con il passato, con la teoria dominante, con il luminare affermato.

foto di Elena Grazia Fè

foto di Elena Grazia Fè

Mura di protezione, non solo per la paura che una vita di sforzi e passione possa essere soffiata via da una folata di vento, ma anche per la necessità di vedere il proprio percorso continuare oltre la propria breve capacità di essere al centro del cambiamento. Nessuna condanna per chi segue un maestro, per chi ne eredita la chimera, un po’ di invidia forse, da parte di chi una fiducia tanto smisurata, una vocazione tanto identificabile, una condivisione tanto profonda, non è riuscito a trovarle. Sul tavolo ci sono gli Atenei, i loro professori, le ricerche da portare avanti e dei canditati divisi in due fazioni, la prima, esigua, fatta di vincitori, la seconda, nutrita, fatta di vinti. Succede che i vinti abbiano prima la sensazione poi la consapevolezza, e le prove persino, di non essere stati valutati giustamente, tanto da andare davanti ad un giudice a rivendicare il proprio diritto, il proprio titolo. Eppure anche quando il giudice si esprime a favore dei vinti non è detto che l’ente, l’Università, accolga la sentenza. Almeno cinque atenei italiani fanno finta di non capire, rimandano la questione, la ignorano. Non si tratta di una vera notizia, questo è il problema. Perché l’altrove non è solo il rifugio di cervelli in fuga, ma anche il costringersi ad essere estranei ad un processo, o l’allontanarsi da una possibilità, non riconoscendola più come tale. Dare per scontato che un concorso abbia uno o più vincitori già designati crea un alibi per cambiare strada, smettere di tentare. Si rimane fuori, a guardare o aspettare il proprio turno se si è ottimisti. Oppure ci si sposta, si distoglie lo sguardo, fuggendo lontano, dove si parla un’altra lingua, e poco importa se si tratti di una distanza geografica o di lontananza di intenti e argomenti. Continuare a provarci fin quando fa troppo male, che per ognuno è un momento diverso, può essere una strategia. Autocommiserarsi nel sentirsi perduti alla ricerca di uno spazio estraneo alle ingiustizie non ancora subite, o andare oltre senza mai pentirsi a scontrarsi con piaceri inaspettati è certamente un’alternativa. Ma se sentiamo il bisogno di crearci alibi, di cercare mondi diversi, di ambire ad un altrove, non è solo per la sensazione di essere eterni secondi. Ce ne andiamo perché rimanere significa essere complici di chi ci mette contro i nostri pari, di chi se ne frega della legge in nome di un proprio senso di giustizia, di regole non scritte. E allo stesso tempo smettiamo di credere di avere le potenzialità per fare della propria ricerca qualcosa di importante, fingendo di rifiutare l’idea di un concorso qualunque perché tanto così vanno le cose e così devono andare. Generazione di sguardi distolti.

 

di Elena Grazia Fè

Da Venerio
Aurelio Visconti
piccolo hotel aurora
ARS fotografia
Banca Tema