Se non appartenete alla nutrita schiera di persone che finita l’estate continuano a vagheggiarla, ma a quell’altra altrettanto nutrita che vede l’autunno come un periodo neccessario di rinnovamento, dinamico, vitale, ispiratore di nuove energie fattive da rimettere in circolo dopo le confusioni estive, probabilmente il connubio tra titolo e copertina di questo piccolo libro vi colpirà come una rivelazione. Settembre sarebbe un bel mese. Dubitativo. E una strada di campagna che sboccia in un bellissimo albero spoglio, frastagliato a decorare il cielo autunnale.
Scritto da Maria Paola Canozzi e pubblicato da Marco Saya edizioni (2014), il libro è ambientato in un immaginario ma familiarissimo borgo della campagna toscana: motivo in più per addentrarsi in una trama che della propria linearità non fa un handicap ma anzi la chiave di volta della riuscita. Una voce narrante femminile alquanto consapevole e venata di una certa ironia descrive il suggestivo paesino di Valbenedetta: «È un’immagine di bellezza assoluta, per la perfezione dei cipressi che delineano la via bianca sotto il sole, per il mosaico dei campi tutt’intorno, di una varietà di verdi ormai tendenti al giallo a causa della calura estiva, per la dolcezza dei profili delle colline che si susseguono in una teoria di orizzonti fino ad assumere contorni nebulosi», e ancora: «Boschi di castagni, cerri e carpini sui versanti dell’Appennino, faggete, prati alpini e picchi rocciosi su quelli delle Apuane. La Versilia è a pochi chilometri in linea d’aria e il benefico influsso marino risale le valli e arriva fino a qui. Questo è un autentico piccolo paradiso, non a caso si chiama Valbenedetta. Per essere perfetto gli manca solo che tornino le mucche e le pecore a pascolare nei campi. E che spariscano i cacciatori».
Qui si introduce il punto cruciale, i cacciatori. Già, perché Settembre sarebbe un bel mese, se… non fosse il mese d’inizio della caccia, che la colta e agguerritissima narratrice, vegetariana quasi vegan, aborre con tutte le sue forze, arrivando a dare un aiutino alla provvidenza nell’eliminazione a uno a uno dei cacciatori di Valbenedetta, tanto da creare un vero e proprio spauracchio che alimenta le chiacchiere da bar.
Gli interventi da “vendicatore mascherato” della protagonista sono un vero spasso da seguire, magistrali, eppure tutti partiti da casualità. Lei trova il bruto di turno in un momento propizio – in bilico su una scarpata che prende la mira, in cima a una scala intento a invischiare i rami di un fico per catturare gli uccelli, accucciato sul greto di un fiume a lavare le attrezzature eccetera – e lo toglie di mezzo, con una bella spinta decisa.
«Il bracconiere si era appostato in ginocchio dietro il pino del cocuzzolo e stava prendendo la mira, tutto concentrato: come ho detto, arrivargli alle spalle e dargli una spintarella è stato incredibilmente semplice. È andato giù come un birillo.»
Incredibile una voce così scanzonata e così libera da scrupoli o ripensamenti, e che in più cerca in noi una certa complicità: sembra quasi di risentire certi eminenti narratori del Novecento dei quali non si sapeva mai cosa pensare, e veniva da chiedersi: “Ma perchè me lo sta dicendo?”. Di lei, che si autodefinisce «un’inquieta, insofferente, impaziente, impetuosa, impulsiva» e che porta avanti con caparbio divertimento la sua personalissima battaglia contro chi offende, maltratta, umilia, elimina gli animali, impariamo ad apprezzare la lingua mordace, la precisione nell’esposizione, le incursioni nel parlato che si incastonano con naturalezza in uno stile piano eppure coltivato. Una persona “pericolosa”, capace di commuoversi di fronte a un uccellino in cattività e nello stesso tempo di eliminare a sangue freddo un uomo (qui l’altro punto di interesse, la ribellione verso un universo troppo “maschile”?).
L’intera critica mossa al sistema attuale, che per mantenere il benessere apparente delle persone poggia i piedi su abitudini di inaudita violenza, come l’allevamento intensivo, l’impressionante realtà dei mattatoi, sino ai dettagli più piccoli come la cottura delle aragoste da vive per preservare la prelibatezza della carni, è calata nei termini di una rivoluzione non impossibile da compiere, se si avesse il coraggio di tornare a fare scelte sostenibili che non implichino la sofferenza di altre specie viventi. Questa teoria, difesa con il supporto di dati aggiornati accennati en passant, vibra nel sentimento della voce narrante anche attravero il velo dell’ironia, e si impreziosisce di una serie di pregevoli citazioni letterarie sull’argomento, da Empedocle, a Leonardo da Vinci, a Gandhi, a Kundera.
Divertentissima la parentesi fiorentina – poiché neanche alla città viene risparmiata la sua parte di critiche e di recriminazioni, qui soprattutto legate all’incuria in cui versa la cosa pubblica –, dove ci si ritrova accompagnati in una passeggiata virtuale per le vie di una Firenze che la protagonista desiderebbe tutta ciclabile, tutta alberata, tutta verde e pulita come un grande polmone benefico, e che invece provoca la sua acrimonia per il fatto di essere sporca, rumorosa, assaltata dalle insegne di chi vende qualsiasi cosa alle folle di turisti…
Ma torniamo dalle nostre bande, nella campagna di Valbenedetta, che è poi quello che ci interessa: se volessimo fare di questo insolito thriller (insolito perché conosciamo benissimo l’assassino, e la suspense sta solo nella nuova casualità delle morti) una lettura squisitamente apolitica, potremmo liberamente tagliare tutte le parti militanti per concentrarci sull’autentico sentimento della natura che emerge dal testo.
L’autrice conosce bene la Toscana, di quella conoscenza del cuore che traduce impressioni visive in attimi di grande sensibilità descrittiva: «Ho avuto l’emozione di vedere da vicino l’upupa che era venuta a mangiarsi un fico, un uccello magnifico, inconfondibile per il ciuffo a ventaglio sulla testa, le ali ornate di bande bianche e nere, e il volo ondulante a farfalla», oppure «Un barbagianni l’ho trovato una notte fermo in mezzo alla strada che porta al fiume: è un animale magnifico, di piumaggio chiaro, con una testa grande come quella di un gatto persiano. Mi ha fissato a lungo, prima di spiccare il volo e sparire nell’oscurità lasciandosi dietro un’impressione di bianco».
Senza troppo sforzo di immaginazione, sono le nostre pinete amiatine, i nostri boschi odorosi di muschio e castagne, le nostre strade strette notturne dove «Capita di incontrare anche scoiattoli, ricci, serpenti, volpi, tassi, istrici e altre meraviglie». Allora leggiamo questo libro curiosi, e soprattutto consapevoli di non star impiegando il tempo in un puro intrattenimento, ma anzi in un tentativo di ampliamento del nostro punto di vista: offertoci provocatoriamente, certo, ma con coraggio.
«”Allora stasera si stappa un Berlucchi” dico. La strategia che ho deciso di seguire è quella di comportarmi come sempre, dunque non devo fare altro che attenermi al mio motto, di cui i cugini sono al corrente: ogni volta che un cacciatore perisce nell’esercizio del suo discutibile hobby, io brindo. Chi è causa del suo mal…»
Buona lettura!