Senza che ce ne accorgessimo è passato un altro anno. Sì, c’è stato il tormentone mediatico di tv, social e auguri telefonici a rimarcare in un’esplosione di fuochi d’artificio, canditi e battute di spirito più o meno condivisibili e sentite il fatto che stavamo facendo il nostro ingresso in un nuovo anno… Ma adesso che ci siamo salvati dai pranzi, siamo sopravvissuti all’ansia di riempire con qualche attività consona la fatidica serata del 31 dicembre, e abbiamo pure messo insieme, un po’ a calci, una lista tutto sommato soddisfacente di buoni propositi per il 2016 (espressi peraltro con sprezzatura e splendido sfoggio di cultura letteraria), cosa ci dice che siamo nel 2016 e non nel 2015? Qual è la differenza tra il varcare la solita porta del solito ufficio – come tutte le mattine – nell’anno vecchio o nel nuovo?
A ricordarci del tempo che passa sono le cose fatte. Aspettative soddisfatte o deluse, progetti realizzati, cambiamenti tangibili, visibili, anche se piccoli, che hanno lasciato tracce apprezzabili su noi stessi, sul nostro modo di pensare, sulla nostra maniera di affrontare la vita in tutte le sue sfaccettature, da quelle piacevoli a quelle complicate.
A proposito di sfaccettature complicate, questi ultimi tempi sono tutto meno che semplici. Stiamo assistendo a grossi sconvolgimenti di natura politica, sociale, etica, tali da mettere in crisi anche le persone che sino a poco fa potevano contare su un consolidato sistema di pensiero e giudizio, in grado di far loro suddividere e valutare con agio le cose distinguendole in “buone” e “cattive”, “auspicabili” e “deprecabili”, “accettabili” o “incondivisibili”. Non vorremmo rieditare il trito e ritrito ritornello per cui “si stava meglio quando si stava peggio” (sarebbe ridicolo, e inoltre la darebbe vinta a schiere di detestabili vecchi), magari però proporre una riflessione su una tematica quanto mai attuale, ovvero di quante nozioni si abbia bisogno, oggi, per potersi avvicinare ad avere un quadro di una situazione, il che può anche essere ribaltato e riletto in questa chiave: a quanti stimoli siamo chiamati a rispondere e quanto dobbiamo mettere in gioco le nostre capacità intellettive e raziocinanti – oltre a tutta una serie di competenze che attengono più alla sfera del senso morale – per poter rispondere con cognizione di causa a uno qualsiasi degli interrogativi che la nostra contemporaneità, con una prepotenza e una saccenteria del tutto nuove rispetto al passato, ci pone.
Forse che non era più semplice quando si moriva e basta, senza stare a disquisire affondando di cavillo in cavillo sino al cuore dell’assurdo, cercando di stabilire “chi” ha il diritto di decidere, “cosa” va deciso, “quanto” sarebbe etico per una società moderna “permettere” o “non permettere” tale o tal altra possibilità? Sì, era più semplice. Intanto la morte continua a non sapere nessuno cosa sia (ci si è provato a dirlo qualche grande, del quale, neanche a farlo apposta, continuiamo a leggere le pagine). Ma che discorsi. Si ritorna al leopardiano pastore che invidia l’ignoranza delle pecore poiché solo in virtù di quella possono evitare l’infelicità, secodo un assioma che fa coincidere la maggior consapevolezza con la maggior infelicità. No. Noi siamo felici di conoscere, di sapere, di vedere circolare le opinioni, di vederci messi in discussione da una miriade così composita di punti di vista da dare vita quasi per generazione spontanea ad un arricchimento e a un’apertura che sono poi i migliori frutti di ogni buon dibattito. Il punto è come lo facciamo. Il punto è smetterla di correre assillati dai nuovi ritmi di creazione e di fruizione delle informazioni, e ricominciare dalle basi. Soggetti, verbi e complementi. Nella frase. Rapporti di causa-effetto. Nella realtà. Umiltà e buon senso. Nelle interazioni sociali.
Fare la gara a chi è più moderno può diventare alquanto controproducente. Siamo potentissimi, iper tecnologici, sapientissimi, e attraenti, e ricchi, e imbottiti di prodotti benefici multifunzionali mirati a mantenere il nostro benessere psicofisico: ma siamo pur sempre piccole cose. Piccole cose che hanno bisogno di toccare per credere, di sperimentare per saper descrivere, di comprendere per trasmettere. Siamo piccole cose che inseguono la felicità, e a volte nel farlo sbattono la testa. Non potremmo ripartire dal grado zero del dialogo su basi condivise, prima di dare la stura a immense sessioni di concionamenti su cose che non sappiamo cosa sono principalmente perché abbiamo inventato noi tutte le definizioni atte a descriverle?
Nel 2016 allo specchio (gli esperti maghi merlini di tutto il mondo si sono affrettati ad assicurare che sarà un anno felice, perché ponendolo dinanzi allo specchio permetterebbe di leggere, appunto, la parola “gioia” in francese) io ci vedo per ora un inverno che non è arrivato, una natura confusa dalle bizzarrie del tempo, e tutto un popolo di italiani che impara a fatica la difficile arte della convivenza tra genti, ci vedo lo spettro delle morti di Parigi, ci vedo le piazze gremite di urlatori in nome del Family Day, ci vedo cose che crescono e Storie che si fanno, oltre a un discreto quantitativo di libri fottutamente promettenti.