Due animaletti velenosi e una particolare piantina come antidoto

trittico della robbia

 

Il Trittico attribuito ad Andrea della Robbia (Firenze, 435 – Firenze, 1525) nipote di Luca della Robbia, uno dei più grandi scultori fiorentini del Primo Rinascimento, e padre di Giovanni che contribuì, insieme a Benedetto e Santi Buglioni alla decadenza artistica della gloriosa bottega d’arte del Quattrocento. Realizzato intorno al 1465 si trova custodito nella Pieve delle sante Fiora e Lucilla di Santa Fiora, in provincia di Grosseto, una delle terrecotte invetriate robbiane che ornano le pareti interne della chiesa, collocata nella navata laterale destra ma, nel passato, probabilmente doveva avere un’altra sistemazione. È composto da tre scomparti principali all’interno dei quali vi sono rappresentate tre scene a carattere sacro, temi iconografici tra i più rappresentati nella storia dell’arte religiosa: al centro l’Assunzione della Vergine, raffigurata in ginocchio mentre viene incoronata dal Padre Eterno alla presenza di due file di Angeli tra i quali, cinque, musicanti. A sinistra San Francesco d’Assisi, in ginocchio, che riceve le stimmate, da un Angelo, come raccontato da Tommaso da Celano, sotto le sembianze di un Serafino con sei ali, le braccia aperte e i piedi uniti, con il corpo, cioè, che aveva una forma simile alla croce. Secondo San Bonaventura, invece, a Francesco apparve Gesù Crocifisso, ed è in questo modo che si svilupperà successivamente il tema. In un angolo, un altro frate assiste all’evento, semisdraiato a terra, si copre gli occhi con la mano sinistra portata sul volto, abbagliato dalla miracolosa visione. È, verosimilmente, il paesaggio della Verna dove il Santo, in preghiera durante un ritiro, ebbe la visione e ricevette i segni inconfondibili alle mani e ai piedi. A destra, San Gerolamo penitente: la scena è ambientata in un paesaggio desertico sottolineato da pochi alberi in lontananza che sorgono da rocce di colore marrone. Il Santo è inginocchiato davanti al Crocifisso, così come l’iconografia tradizionale vuole; regge in mano il sasso che usa per battersi il petto. Vicino a lui è visibile il leone che, secondo un racconto popolare, Girolamo aveva curato estraendogli una spina dalla zampa e che, per riconoscenza, gli era diventato amico. Vi è rappresentato anche un piccolo serpente che alza la testa e parte del corpo, vicino ad una pozzetta d’acqua, e uno scorpione. Il serpente, nell’iconografia cristiana, è simbolo del maligno, sinonimo di Satana. Lo scorpione, per il suo morso spesso letale, è considerato il simbolo di Giuda e del suo tradimento. Lateralmente, nell’angolo basso sinistro a contatto con il corpo del leone, compare una piantina, una mandràgora, molto nota dall’antichità e assunta dalla letteratura nella famosa commedia che reca il suo nome, scritta da Niccolò Machiavelli. È il nome italiano della pianta Mandràgora microcarpa delle Solanacee, una pianta mediterranea dei luoghi umidi che cresce nei terreni ricchi di sostanze organiche. Ha grandi foglie a rosetta, fiori a campana di colore bianco o viola, frutti a bacca. Ma sono le radici la parte morfologicamente più interessante e curiosa della pianta. Sono grosse e rizomatose e hanno una conformazione che la fantasia popolare, dai tempi antichi, ha avvicinato alla forma del corpo umano sia maschile che femminile. La presenza in essa di mandragorina, una miscela di alcaloidi simili all’atropina, la connota come pianta velenosa. Se ne conoscono alcune specie: Mandràgora officinarum, con fiori bianco-violacei; Mandràgora autumnalis, con fiori violetti; Mandràgora vernalis, con fiori bianco-verdognoli.

Voi avete a intendere questo, che non è cosa a ingravidare una donna che darli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me dua paia di volte e trovata sempre vera; e se non era questo, la reina di Francia sarebbe sterile, e infinite altre principesse di quello Stato”. (Niccolò Machiavelli, La Mandragola, Atto Secondo, Scena Sesta). Con queste parole Callimaco, giovane innamorato di Lucrezia, progetta l’inganno nei confronti di Messer Nicia, marito della donna, servendosi di una pozione che, a suo dire, l’avrebbe miracolosamente resa gravida, con la complicità, innocente e non, di altre persone da lui coinvolte nella storia e dello stesso, accondiscendente, ingenuo, marito, diventò “femmina” facendo “becco” l’anziano e credulone consorte, come egli stesso aveva timorosamente presagito, le qualità terapeutiche di questa pianta erano considerate straordinarie. Si riteneva, infatti, che la Mandràgora avesse proprietà afrodisiache; se ne trova notizia già nella Bibbia: “Or al tempo della mietitura del grano, essendo Ruben andato alla campagna trovò delle mandragole, e le portò a Lia sua madre. E Rachele disse a Lia: «Via, dammi della mandragole del tuo figlio». E Lia rispose: «Ti par poco avermi tolto il marito, che vuoi togliermi anche le mandragole del mio figlio?» […]. E Giacobbe dormì con lei in quella notte. Il Signore poi ascoltò le preghiere di lei, che concepì e partorì il quinto figliolo” (Genesi, XXX, 14-17). Ma, al di là della singolare vicenda raccontata dal Machiavelli che portò il furbo e aitante giovanotto a “giacere” con la bella e giovane donna che di medicina corrente non riusciva a guarire, resta il fatto di essersi fidati delle panzane raccontate dal furbo giovane. Alcune di queste persistono ancora oggi, all’inizio del XXI secolo, in piena epoca del computer e dei viaggi nello spazio, in cui si offrono, in vendita, a prezzi variabili in base alle dimensioni e ad altri parametri, preparati magici di radici di Mandràgora unite a particolari quanto ridicole preghiere. E che fosse anche un forte ed efficace anestetico ci è descritto da Ippocrate, grande medico dell’antichità, vissuto tra il 460 e il 377 a.C., che con la “spongia soporifera”, una spugna impregnata di oppio, Mandràgora e cicuta riusciva a dare il sonno ai malati. Anche Dioscoride, un medico del I secolo d.C., descrivendo gli effetti della Mandràgora usa, per la prima volta, il termine “anestesia” che si affermerà poi a partire dal 1847 con l’uso del cloroformio. Le leggende nate intorno a questa pianta, soprattutto in certi periodi storici, sono tante e molto colorite. Si dice che abbia avuto origine dallo sperma di un impiccato; che la pianta deve essere colta nelle caverne o nei cimiteri alla mezzanotte del venerdì. Teofrasto, filosofo greco vissuto tra il 312 e il 287 a.C., suggeriva, per evitare gli effetti dannosi e i pericoli derivanti dal contatto con la pianta durante la raccolta delle radici, di tracciare con la spada tre giri intorno alla pianta stessa, di scavare per estirparla tenendo il viso rivolto verso ponente e facendo danzare e cantare particolari laudi ad un accompagnatore. Lo storico Flavio Giuseppe (37-100 d.C), racconta che per sradicare la radice bisogna prima irrorare la pianta di urina o di sangue mestruale e poi, dopo aver vangato intorno, si può procedere allo strappo finale legando un cane con una corda che va dalla pianta al collare dell’animale. Il cane, chiamato dal padrone, iniziando a correre, estirpa la radice. Questo accorgimento, cioè l’uso del cane, deve essere eseguito per il semplice motivo che l’operazione può portare alla morte di chi opera lo strappo; così facendo, il cane è la vittima della Mandràgora che, con il sacrificio dell’animale, perde il potere letale e mantiene quello di scacciare, dai corpi degli uomini, tutte le negatività. Ma ritorniamo alla Mandràgora o Mandràgola, come generalmente viene chiamata. Possiamo, quindi, dedurre che la presenza della pianta di Mandràgora nella composizione abbia la prerogativa di antidoto (spirituale) al veleno del serpente (il Demonio); il trionfo del Bene sul Male? Così può essere spiegato, nel caso specifico, l’uso simbolico della pianta nell’opera.

Il Trittico è completato da una cornice superiore decorata con fusarole a perline e ovoidali che ha nel Fregio una fascia continua di pigne, mele cotogne e altri frutti. La predella, separata da una cornice orizzontale di tipo classico ionico con ovoli dal resto dell’opera, reca da sinistra, i seguenti temi: l’Annunciazione, la Natività di Gesù e l’Adorazione dei Magi. L’opera mette in evidenza la mano di Andrea della Robbia nelle figure principali mentre, nelle altre numerose parti, la mano dei collaboratori di bottega.

Giombattista Corallo

 

trittico particolare

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