I tecnici, medici, psicologi, psichiatri ed altri psy, si cominciano a preoccupare, lanciando segnali allarmati a proposito delle cosiddette “dipendenze da internet”, che colpiscono i ragazzi a cominciare dall’uso frenetico dei social e della varia messaggistica, di cui abbiamo parlato più volte in queste Cronache, senza contare i video-poker e i siti di gioco d’azzardo. L’uso che i ragazzi fanno delle nuove tecnologie elettroniche, anche nello studio, secondo i tecnici psy li priverebbero del contatto con il libro fisico, con i suoi odori cartacei, il suo peso e la sua consistenza e questo ne comprometterebbe la stessa capacità di apprendimento, atrofizzata dal copia e incolla. È una conferma della perdita di contatto con la realtà sensibile, che abbiamo più volte qui dichiarato essere la base dell’esilio a cui siamo condannati. Credo che etichettare tutto questo come una “dipendenza” sia fuorviante, tende a gabellare questi ragazzi come malati, come “mele marce” da trattare separatamente dal gruppo degli altri coetanei e dal resto della comunità. In realtà si tratta di un’abitudine, che come si è appresa, può essere dismessa; allora a che serve indicarla come “dipendenza”, cioè come una sorta di malattia, per la verità poco definibile? Gli stessi pignolissimi psichiatri americani, nel loro Manuale Diagnostico e Statistico (giunto alla quinta edizione, DSM-5 del 2013), hanno depennato le “dipendenze” dal loro vocabolario perché la loro definizione è scientificamente “incerta”. La risposta è relativamente semplice: isolare un gruppo di “malati” serve a proteggere la grande maggioranza di “usatori” o meglio “consumers”, cioè consumatori delle stesse tecnologie, compresi i genitori di quei ragazzi, incollati ai monitor del borsino finanziario o alla stessa posta elettronica o al sito del burraco. In realtà si comincia dal poco, dal rispondere a qualche messaggio innocente, e si può finire con le occhiaie da deprivazione del sonno, i tremori, la tensione nervosa, il bisogno compulsivo di stare attaccati al pc il più possibile ecc. Quindi non si tratta di un ristretto numero di “malati” da curare, ma di una mutazione antropologica che è in corso e che riguarda l’intera umanità, di cui non sappiamo gli esiti più o meno apocalittici. Più stiamo attaccati ad un congegno elettronico e più ci avviciniamo a quei cyborg metà umani e metà elettronici, che popolano il nostro cyber-futuro.